averla capirossaSono sicuro che molti lettori non conoscano nemmeno questi simpatici uccelletti, e tanti altri se ne siano ormai dimenticati. Eppure io ritengo che sia giusto dedicargli un’annotazione particolare. Il mio desiderio di scrivere dei piccoli rapaci è originato da ricordi che ormai risalgono a tempi assai lontani. Infatti sono trascorsi più di cinquant’anni da quando, io e altri ragazzini, ci svegliavamo addirittura nel cuore della notte e, nella mattinata a venire, facevamo follie per correre dietro alle code dai colori sgargianti di questi singolari volatili.

   Ebbene, molti anni orsono, la mia curiosità mi spinse a informarmi meglio sulle loro abitudini e ricordo che, nella circostanza, rimasi molto sorpreso nell’apprendere che la presenza di questi superbi passeracei è stata osservata sulla quasi totalità del territorio italiano.

    Ho affermato di essere rimasto sorpreso durante la mia semplice indagine perché, prima di quel tempo, avevo sempre creduto che i Carracefuli — così li chiamavamo nel nostro gergo dialettale — fossero degli uccelli stanziali e la pratica per catturarli fosse stata un’esclusiva soltanto di noi imberbi che allora crescevamo in un’area circoscritta tra i paesi rivieraschi di Bova e di Bovalino, entrambi dislocati sul versante jonico della provincia di Reggio Calabria.
   Comunque, per quanto concerne il sistema di prenderli in trappola, mi sento di ribadire che tuttora ho la medesima convinzione perché, ai riscontri che feci fin da quando ero un ragazzino, si sono aggiunti quelli dell’età adulta.
   Difatti nel corso degli anni mi è capitato spesso di intavolare discorsi che vertevano proprio sulla nostra tradizione di catturare i piccoli rapaci ma, al di fuori della cerchia delle persone che hanno la mia stessa intrinseca origine, non ho mai trovato nessun individuo che sapesse che cosa fossero i carracefuli e naturalmente nemmeno come si sarebbe dovuto procedere per catturarli. Ovviamente ai miei occasionali interlocutori, oltre a riferirgli il reboante nome —carracefulu— per fargli comprendere meglio di che cosa io stessi trattando, davo anche indicazioni precise sulle caratteristiche dei volatili: grandezza, colorazione e abitudini.
  Dopo questo necessario preambolo, mi accingo ora a descrivere più dettagliatamente le loro peculiarità ambientali, l’istinto nel reperirsi il cibo e come avveniva la rudimentale caccia.
  I piccoli uccelli rapaci, che per adesso continuiamo a chiamare —carracefuli —, facevano la loro prima comparsa nelle nostre campagne verso l’inizio del mese di maggio.
   Per l’esattezza ricordo che in quel periodo, specialmente tra le piante di fico, vedevamo destreggiarsi nel volo soltanto un unico esemplare contraddistinto dall’inconfondibile testa rossa.
   Posso anche confermare con certezza che, i meravigliosi rapaci dalla testa rossa, il dorso nero e il petto bianco, fossero gli unici, tra tutte le loro quattro specie, ad arrivare in anticipo nelle nostre contrade. E proprio le coppie dalla caratteristica “testarrussa” in primavera nidificavano tra i rami dei frondosi alberi; e così, all’inizio della stagione estiva, sulle siepi, sugli arbusti rinsecchiti, sulle cime dei peri selvatici e in ogni altro angolo dei latifondi proliferavano i variopinti uccelletti dal canto non proprio gradevole.  
  A essi, come per incanto, si aggregavano in moltitudine i loro consimili che arrivavano in ritardo da regioni meno calde e noi li chiamavamo: russiceddhu, carriasali e palumbinu.

  Tuttavia, seppur di notevole importanza, la mia disamina non vuol’essere improntata sulle origini e le caratteristiche dei meravigliosi uccelli carnivori, ma piuttosto sull’aspetto intrigante che essi riuscivano a infondere nei sentimenti di noi ragazzini, quando il loro primo apparire si manifestava nell’aria torrida dei nostri cieli.
  Ed era proprio in quei giorni di piena canicola, e più esattamente dopo la mietitura, che scattava, tra i giovinetti della nostra piccola comunità, il dilettevole antagonismo per la cattura dei carracefuli.
  Gli attenti rapaci si procuravano il cibo — insetti, lucertole, topolini, e anche uccelletti più piccoli di loro; ma, soprattutto, gradivano le cavallette che infestavano i terreni dell’entroterra — principalmente alle prime luci dell’alba.
  Difatti, appena a est il crepuscolo squarciava le tenebre, l’istinto di predatori li portava ad appollaiarsi vigili sulle cime degli alberi e sopra ogni altro arbusto da dove potessero spaziare sul terreno circostante.
  Dotati di una vista eccezionale, scrutavano ogni impercettibile movimento che avveniva tra le stoppie e, appena si accorgevano che c’era qualcosa da beccare, si preparavano all’attacco con movimenti nervosi e poi si lanciavano con volo breve sulla minuscola preda.

  Noi conoscevamo alla perfezione le loro abitudini: e allora sceglievamo degli appezzamenti di terreno, dove la vegetazione si presentava diradata, e, a qualche metro dal fusto della pianta, allocavamo delle rudimentali trappole in pietra, e per attrarre la loro attenzione come esca infilzavamo delle cavallette vive.
  Per garantirci il diritto di poter esercitare la cattura dei carracefuli in un fondo qualsiasi, dove erano già state predisposte le arcaiche trappole, era necessario e sufficiente arrivare sul luogo prima degli altri.

  Ed ecco che ora l’affermazione che avevo espresso all’inizio di questo articolo —tutti i ragazzini del nostro paesino perdevano addirittura il sonno per correre dietro alle code degli ambiti volatili—rende la sua esauriente spiegazione.
  Infatti, per battere sul tempo la concorrenza si ricorreva a mille arguzie: si organizzavano delle squadre; durante il corso della serata si ordiva una specie di spionaggio per carpire i programmi degli altri interessati alla pratica della cattura dei carracefuli; ci alzavamo a notte fonda eludendo la sorveglianza dei nostri famigliari; alcuni amici che erano più grandi di noi, se ritenevano che fosse stato necessario, per anticipare i loro antagonisti si recavano a dormire addirittura sul posto.                                                           Per la ricercata cacciagione si rasentava ogni genere di peripezia e si sfidavano le più impensabili difficoltà: studiavamo particolari stratagemmi; giravamo di notte nelle campagne superando paure ataviche; raccontavamo bugie ai nostri genitori; e, spesso, bisticciavamo anche con i nostri piccoli amici.
 Insomma, nel mese di luglio e di agosto, nella nostra piccola frazione non si parlava di altro: i carracefuli erano lo scopo prioritario di tutti i ragazzini.
  D’altronde in quegli anni di magra, quando la carne si mangiava soltanto dopo aver macellato il maiale e in coincidenza di altre poche festività, le nostre mamme facevano particolare riferimento all’esito delle nostre “battute di caccia”.
  Spero di non suscitare antipatici risentimenti nell’intimo di coloro che aborriscono la caccia, ma non posso nascondere che provo ancora una forte emozione quando mi rivedo con il nutrito carniere legato al fianco e, mentre sono in prossimità della mia abitazione, la mia mamma mi accoglie con il viso raggiante perché, per quel giorno, almeno avrebbe risolto il problema del pranzo.
  Poi, verso la meta di settembre, i nostri ardori si placavano e ricominciava un lungo periodo di normalità.
  I carracefuli superstiti avevano già abbandonato le nostre campagne; sulle cime degli arbusti selvatici che svettavano lungo la spiaggia, prima di spiccare l’insidioso volo verso le calde coste africane, si aggirava ancora qualche ultimo esemplare di palumbinu.  
  E noi gli proponevamo insistentemente di scrutare dentro le nostre trappole perché, aver potuto catturare quella bella specie di pennuto dai colori cerulei, sarebbe stato un po’ il sogno di tutti.

   E’ vero: i mitici carracefuli avevano alimentato molti sogni nella mente di noi fanciulli che crescevamo in una terra avara che non ci offriva tante divagazioni. Con il nostro atteggiamento volevamo dimostrare di essere più grandi, intraprendenti, dinamici, solerti, ardimentosi e qualche volta perfino anche strafottenti. D’altronde quando qualche ragazzino, spinto dalla bramosia di non voler dividere il bottino di caccia con altri compagni e durante la notte decideva di avventurarsi da solo, era proprio alle falde di quelle solitarie vallate avvolte nel silenzio e rese sinistre dalla tetra oscurità che egli misurava la sua forza e il suo coraggio.
  Ma oggi, riflettendo bene, riconosco che nel nostro inconscio si scatenava verso i poveri uccelli un modo di accanirsi veramente truculento e fin troppo primordiale.
  Come giustificazione a mia discolpa verso tali biasimevoli demeriti confido che, dopo aver lasciato il mio paese e ogni qual volta che costì vi sono ritornato, mai più ho pensato di armare una sola trappola.
  Tuttavia, ci tengo a precisare che il nostro crudo comportamento non era altro che il perpetuarsi di un’antica tradizione dei nostri avi, e nulla sapevamo di quegli sfortunati volatili che facevamo a gara per catturarli.
  Non conoscevamo nemmeno il loro vero nome che è scritto sui libri di ornitologia. Io l’ho scoperto casualmente molti anni dopo guardando un documentario in televisione.
  Sullo schermo continuava a passare l’immagine di un bell’esemplare di testarrussa, e il commentatore insisteva a indicarlo con il nome di—Averla—.
  Averla; averla, lo sentivo ripetere: <<ma che cosa avrebbe dovuto mai avere… quel piccolo rapace?!>> mi chiedevo in silenzio.
  Io naturalmente riconobbi subito quell’uccelletto, a me tanto famigliare, e fu proprio quel giorno che, ebro di emozione, finalmente apprendevo che i famosi carracefuli, in effetti, si chiamano Averla.
  L’Averla piccola—lanius collurio—, che noi chiamavamo russiceddhu, è la specie più minuta, e presenta sul dorso un piumaggio color mattone vivo.
  L’Averla media — lanius minor — che noi chiamavamo carriasali, invece è colorata completamente di un bel grigio sabbia.
  L’Averla capirossa— lanius senatur— che noi chiamavamo appunto, testarrussa, presenta come colorazione proprio la testa rossa, il dorso nero e il petto bianco.
  L’Averla maggiore — lanius excubitor — che era il trofeo più ambito da tutti, e noi chiamavamo palumbinu, ha il petto bianco, la maschera facciale, le estremità delle ali e la coda neri, e il dorso colorato di un superbo grigio con sfumature tendenti quasi al celeste.
  Tutti i suddetti esemplari di uccelli appartengono alla famiglia dei lanidi e migrano sempre verso le regioni più calde.

  Ora tutti gli amici che risiedono stabilmente nel mio paese d’origine, Capo Spartivento –RC‒, ogni anno mi confermano che nelle nostre campagne i simpatici carracefuli non esistono più. Sono scomparsi perfino i grilli e le cavallette: ahimè, è avvenuto un vero sconvolgimento ecologico!

  L’estinzione, soltanto dai nostri territori—versante reggino del litorale jonico—delle Averle e dei grilli, oltre a essere il segnale di un inesorabile declino dell’equilibrio della natura, per me rappresenta il tramonto di una delle tante tradizioni straordinarie alla quale sono legato tuttora da indelebili ricordi della mia infanzia, e questa modesta rievocazione si prefigge soltanto lo scopo di rinverdirla.

averla maggiore

averla media

averla piccola