Pin It

… Tra i poveri e Dio c'era una stretta somiglianza e un continuo incontro.  Dio e il povero camminavano insieme e la  luce aveva spento l’oscurità…

... e la politica è troppo affaccendata nella spartizione di poltrone e panchina: i “cartoni” sono raccolta differenziata, non rientrano in nessuna bozza di legge o leggina…


dsc 5529-2-400px Roma - Rifiuti, letti di cartone, buste di plastica piene di roba, sporcizia e degrado: un’immagine che si presenta ai miei occhi ogni mattina non appena esco di casa, una realtà quotidiana per i circa 7 mila senzatetto che vivono a Roma. E poi ancora,  uno, due mendicanti, spesso accasciati per terra o seduti sui gradini,  davanti ad ogni porta di casa, di negozio, di chiesa, di ufficio: sentinelle dell’elemosina, poveri senza attestato professionale, uomini senza territorio e senza governo. Poveri, protagonisti di una cronaca giornaliera che neanche la politica riesce più ad offuscare, o che uno Stato di polizia riuscirebbe a debellare. Da qualche mese ho deciso di frequentare un centro di ascolto parrocchiale della Caritas per poter raccontare, da testimone oculare, il Dio barbone, il Dio povero, il Dio ultimo.

    Comunemente si pensa che il clochard sia un incapace, un uomo con le rotelle un po’ lente o mancanti, un uomo che puzza e che viene rifiutato dalla società civile che nella sua  apparente “benevolenza” gli offre un cammino di libertà, di fratellanza, di carità, ma che poi lo trasforma in  spazzatura maleodorante capace anche di creare problemi.
   La fantasia si materializza quando la persona senza dimora comincia a raccontarsi: la perdita del lavoro e/o della casa, la perdita della moglie o della famiglia - l’ultima rete di protezione sociale - la perdita degli amici che sguazzano anch’essi nel mare tempestoso della società capitalistica del “si salvi chi può” .
    La cronaca giornalistica ci racconta quotidianamente di spettacoli inquietanti di umanità calpestata,  di tragedie, di miseria e di emarginazione; di gente che fugge dal proprio paese in cerca di fortuna e che spesso incontra  la morte lungo il tortuoso sentiero della speranza.
Al centro di ascolto della Caritas, ha bussato Rossella, una giovanissima neo laureata in giurisprudenza, ragazza madre. E’ stata molto grintosa ad esporre il proprio stato di bisogno economico e a non mendicare alcuna benevola raccomandazione.  
-  Non ho mercanteggiato la mia vita in famiglia e neanche con l’uomo che amavo e che voleva convincermi a disfarmi del mio bimbo che portavo in grembo. Chiedo aiuto agli uomini, ai miei simili, non alle iene che calpestano il suolo dove passano. Chi ha detto che bisogna avere una casa, una tv, una macchina, una lavatrice per appartenere al popolo civile? Il modello della società consumistica è un vestito che non indosserò mai e non m’interessa.  Io cerco lavoro. Io sono una madre, sono una donna, sono una lavoratrice. – disse con tutta l’energia che teneva in corpo e poi continuò:
- Qual è la differenza fra me e voi cosiddette ”persone normali”?
- Io dormo anche sui cartoni e gusto ogni cibo che mi viene offerto dai “baroni- usurpatori” della terra, che pensano di avere potere di vita e di morte sui figli  della dea sfortuna, che credono di essere migliori degli altri, che inseguono  titoli d’ogni genere per appenderli ai muri delle loro stanze. Io ho intelligenza, ho capacità e dignità, e non maschere per nascondere la mia stoltaggine, voglio, pretendo, di essere un anello della catena  produttiva umana. Forse sono un niente di troppo, ma mi sta bene così. Ho 32 anni, non ho paura di invecchiare, niente mi spaventa e prima o poi dovrò pur sfondare come libero professionista” – disse con rabbia. Poi chiese un buono pasto per andare alla mensa dei poveri ed uscì.
    Nella sala d’attesa, Ludovico, naufrago dalle coste africane, era riuscito a sentire lo sfogo e il pensiero-rivoluzionario di Rossella e l’aspettava per complimentarsi con lei come si aspetta lo studente che ha superato l’esame quando si congeda dal professore che l’ha esaminato.
- Brava, gliele hai cantate – disse Ludovico andandole incontro  e porgendole la mano.
Rossella abbozzò un sorriso, strinse la mano dell’uomo e s’incamminò verso la fermata del tram.


- Dopo Rossella entrò un clochard rumeno cinquantenne. Si reggeva appena su una stampella. Elisabetta l’aiutò a sedersi e a poggiare la stampella contro il muro, mentre io tirai fuori la scheda anagrafica per riempirla con i dati del nuovo arrivato.
Mario, questo il suo nome, ci raccontò spezzoni di vita e di dolore, di umiliazioni subite, di raggi di luce. Ci chiese degli indumenti per coprirsi. Quel giorno, come tanti altri, era salito sul tram senza biglietto per essere poi  spinto fuori, dai controllori dell’azienda, come un maiale puzzolente,  fino a farlo cadere sulla banchina della fermata. Si era trascinato fino alla nostra sede, aiutato da altri poveri che frequentano il nostro centro. Era spaventato e infreddolito, aveva paura di essere picchiato. Con voce balbettante giustificò gli uomini in divisa che non avevano fatto altro che il loro dovere. Ci disse che egli era stato  invitato a scendere e che contro di lui  non c'era stato alcun tipo di violenza. Era caduto perché la stampella non era stata poggiata bene sul gradino del marciapiede e non aveva retto.
    Sappiamo che le cose erano andate diversamente. La solidarietà della gente non si era fatta attendere, le coscienze si erano ribellate ed avevano chiamato la polizia e se un passeggero aveva invitato alla calma e al buonsenso, tutti gli altri si erano avvicinati al sacco di patate umano per  aiutarlo. Un passeggero si spinse ad offrire di pagar lui il biglietto e la relativa sanzione, pur di riscattare l’immagine del povero sventurato. Mario ci era stato consegnato con gli indumenti sporchi e consumati.
  Sappiamo anche che un coro di “bastardi”, vigliacchi” si era levato all’indirizzo dei controllori. Sappiamo anche che una ragazza in carrozzella si era fatta largo per offrire al barbone un cappuccino che lei stessa era andata a prendere al bar di fronte a pochi passi. Sappiamo anche che dal canto suo,  Mario offrì, a quei “bastardi”, il suo perdono senza sollecitazione alcuna e senza alcun residuo di rancore.
    Offrimmo a Mario, quello che avevamo: un paio di pantaloni, una camicia, un maglione un cappotto, un buono pasto e lo salutammo.
 Non era passata mezz’ora, che Mario fu di ritorno e si fece largo fra gli altri poveri, dicendo che aveva qualcosa di urgente da riferirci. Fui io incaricato a riceverlo e quando fummo soli, a quattr’occhi, Mario con un dolce sorriso mise la mano nella tasca dei pantaloni, tirò fuori una banconota da 200 euro e mi disse: prendete, questa è vostra, era nella tasca di questi pantaloni che mi avete regalato. Lo guardai fisso negli occhi, ebbi quasi paura: avevo incontrato un grande uomo, una guida di bontà! Invitai Mario a tornare a salutarci e continuai a ringraziarlo. Una settimana dopo, per dare seguito al mio programma di visite alle Chiese romane, mi spinsi  fino al quartiere popolare di Tor Tre Teste per vedere la chiesa “Dives in Misericordia” progettata dall’ architetto americano Richard Meier, un gioiello di architettura contemporanea  con il suo colore bianco candido e a prova di sporco. La Chiesa appare come nave con le vele spiegate ed evoca l’immagine paleocristiana dell’anima che come una nave punta verso il faro di Cristo, oltre a  rappresentare la Chiesa che traghetta il fedele verso il terzo millennio.
    Era una domenica. Stavo per imbarcarmi, cioè varcare il portone della Chiesa, quando un uomo con un volto luminoso, mi chiamò per nome:-  Mimmo, avvocato, non mi riconosce più? Sono Mario. E’ arrivato nella mia Chiesa. Sa, l’aspettavo. Volevo raccontarle altre cose, perché lei m’ispira fiducia ed è un uomo buono. Al Centro di ascolto eravate tutti impegnati e la gente che aspettava fuori era tanta.
Ci spostammo in un angolo della piazza e Mario iniziò a raccontarmi.
- Ho paura – mi disse – ho paura di morire.  Io non credo che la morte dei  giovani clochard somali bruciati vivi, a Via Veneto, dal fuoco dei loro cartoni sia stata una disgrazia. Io sono convinto che si è trattato di un omicidio atroce, messo in atto per puro divertimento, penso che sia stata una mano ignota ed assassina a dar fuoco. Noi barboni non usiamo quasi mai il fuoco per scaldarci e difenderci dal gelo. Potevo esserci io al posto loro e fare la stessa fine.
- Caro amico mio, la povertà è come una malattia inguaribile perché mancano medici e medicine.  Io non ho nulla da lasciare al mondo, ma ho paura di morire.
 L’ascoltai in silenzio e con profonda amarezza. Nelle sue parole coglievo il dramma perpetuo dell’uomo emarginato.
   A Roma si muore di povertà e i barboni non servono neanche a fare da testimoni. Ogni giorno derisioni ed angherie di ogni genere, guardati come appestati.
Le Istituzioni hanno gli occhi bendati e il volontariato è insufficiente e miope. Roma, fra i suoi tanti primati, forse, potrebbe annoverare anche quello di capitale del “barbonismo”.
Nella nostra città non è difficile accorgersi di cittadini invisibili che nelle strade, nei treni, sotto i ponti, nei dormitori, nelle mense sociali oppure in sistemazioni improvvisate, vivono al limite della tollerabilità fisica, al limite del disagio, dell'abbandono e dell'isolamento.
I senza fissa dimora non hanno voce, non fanno cortei e neanche comizi in Piazza San Giovanni, di loro se ne parla solo quando diventano immondizia da rimuovere o carcasse da inscatolare.
I servizi di mensa sociale e di accoglienza diurna e notturna sono insufficienti e la politica è troppo affaccendata nella spartizione di poltrone e panchina: i “cartoni” sono raccolta differenziata, non rientrano in nessuna bozza di legge o leggina.
 Le persone senza fissa dimora  costituiscono un gruppo arcobaleno che, al loro interno,  include cittadini italiani, stranieri privi di permesso di soggiorno o con richiesta di asilo politico, profughi e nomadi. Inoltre, vi è un numero rilevante di minori. Come solidarizzare con loro? Come aiutarli in concreto? Le risposte politiche sono tante, ma quella cristiana è una sola: è accoglienza, è amore.
   Vi sono poi i diritti che sono i vestiti più intimi dell’uomo, che devono  tendere a proteggere l’ individuo, per cui la nostra attenzione deve cadere sull’uomo indifeso, sul bambino di strada,  sulla donna violentata o venduta, sull’ handicappato,  sulla prostituta che vende il suo corpo per sfuggire alla fame e alla miseria, sul transessuale perseguitato, sull’ emigrato sfruttato, sul disperato del Terzo mondo che s’imbarca su una carretta del mare sfidando la morte e le tempeste e che spera di raggiungere la “terra promessa”, sui carcerati, sui prigionieri politici, sugli ammalati  dimenticati,  sulla nuova schiavitù africana che crea morti sul lavoro in nome dell’interesse  produttivo.
Se stiamo dalla parte degli ultimi e dei popoli di altre culture e religioni e se riusciamo a chiamarli e sentirli fratelli, siamo parte dell’Amore di Dio.
     Mario continuava a raccontarmi quando un altro uomo si avvicinò a noi.
- Hai un euro per me? – mi chiese, ma prima che io rispondessi e mettessi la mano in tasca, Mario tirò fuori una sigaretta e gli disse: -  Fumi troppo, il fumo ti fa male e i soldi ti servono solo per le sigarette.
  Il nuovo arrivato cercò di intromettersi nei nostri discorsi e, non sapendo cosa fare, esclamò al mio indirizzo con tono provocatorio:
- Dove sono i cristiani che mettono tutto in comune e dividono secondo le necessità di ognuno?  Tu non hai condiviso con me neanche un soldo.
La provocazione rimase senza risposta.
Ma continuò: - Anarchia, comunismo, società cristiane, tanti pulpiti, tanti interessi! Sono povero, ma non un tuo schiavo: la schiavitù è nella tua avidità ed io mi contento di poco, magari d’una sigaretta – concluse amaramente.
- Sei schiavo della tua cretinaggine. Confondi l’acqua con il vino e la mattina ti svegli già ubriaco. Il mio amico presta servizio di volontariato alla Caritas, non a Monte Citorio. Vai da quelle parti a fare i tuoi comizi! – ribatté Mario.
    Senza più lavoro e da alcuni giorni buttato fuori casa dalla famiglia, per dormire aveva scelto come “tana”  un cassonetto dei rifiuti ed ha rischiato di essere triturato dal camion della raccolta la mattina dopo quando passò per svuotare i cassonetti.
    Ora, se nella vita qualcuno subisce una disgrazia, la società ha il dovere di assisterlo, senza discriminazioni, senza distinguo, senza eccezioni.

Diverso è il caso di pretendere assistenza a prescindere, di chi, pure avendo la possibilità, non ha la volontà di contribuire alla società per "non sentirsi schiavo", di chi vuole fare la bella vita libero da obblighi e responsabilità.
    E’ sicuramente necessario aiutare tutti coloro che non ce la fanno, la Caritas e le elemosine non sono sufficienti: serve abbattere il capitalismo e il consumismo, serve più stato sociale, a partire da un sussidio di disoccupazione per tutti coloro che non lavorano!
Personalmente sono convinto che chi può, ha il dovere di contribuire col proprio lavoro al benessere e al progresso della società.
    I senza fissa dimora non hanno voce, non fanno cortei e neanche comizi in Piazza San Giovanni, di loro se ne parla solo quando diventano immondizia da rimuovere o carcasse da inscatolare.
    I servizi di mensa sociale e di accoglienza diurna e notturna sono insufficienti e la politica è troppo affaccendata nella spartizione di poltrone e panchina: i “cartoni” sono raccolta differenziata, non rientrano in nessuna bozza di legge o leggina.
 Le persone senza fissa dimora  costituiscono un gruppo arcobaleno che, al loro interno,  include cittadini italiani, stranieri privi di permesso di soggiorno o con richiesta di asilo politico, profughi e nomadi. Inoltre, vi è un numero rilevante di minori. Come solidarizzare con loro? Come aiutarli in concreto? Le risposte politiche sono tante, ma quella cristiana è una sola: è accoglienza, è amore.
  

Vi sono poi i diritti che sono i vestiti più intimi dell’uomo, che devono  tendere a proteggere l’ individuo, per cui la nostra attenzione deve cadere sull’uomo indifeso, sul bambino di strada,  sulla donna violentata o venduta, sull’ handicappato,  sulla prostituta che vende il suo corpo per sfuggire alla fame e alla miseria, sul transessuale perseguitato, sull’ emigrato sfruttato, sul disperato del Terzo mondo che s’imbarca su una carretta del mare sfidando la morte e le tempeste e che spera di raggiungere la “terra promessa”, sui carcerati, sui prigionieri politici, sugli ammalati  dimenticati,  sulla nuova schiavitù africana che crea morti sul lavoro in nome dell’interesse  produttivo.
Se stiamo dalla parte degli ultimi e dei popoli di altre culture e religioni e se riusciamo a chiamarli e sentirli fratelli, siamo parte dell’Amore di Dio.
L'economia ha le sue leggi, ma tutti hanno diritto di mangiare. Tutti siamo chiamati a dar da mangiare agli affamati su quello che abbiamo in tavola. Il Comandamento cristiano non è produrre per il guadagno, ma produrre per l'uomo. Fare  il negriero per guadagnare, come lo fanno quasi tutti i padroni, è povertà spirituale, perché prima del diritto al guadagno, viene il diritto alla vita!
    Mario continuò a raccontarmi: - Il parroco mi ha regalato una roulotte ed ora dormo al riparo dalle intemperie. Forse, se ci sarà bisogno, potrò anch’io ospitare qualche viandante che passa da queste parti, ma sicuramente potrò scaldare una dolce donna e lavarmi con acqua e sapone: un barbone lavato, puzza meno – disse fra il serio e il divertito.
- Chissà forse un giorno non lontano smetterò di chiedere l’elemosina e non sarò più guardato strano e considerato un pezzente, forse incontrerò la brutta “anatroccola”, la farò al forno e me la mangerò con contorno di patate e senza piume.
-  Oggi mi son lavato per bene, oggi voglio avvicinarmi alla Mensa del Signore, ma lo farò dopo la Messa, non voglio creare disagi fra gli altri invitati.
      Quel giorno ascoltai la S. Messa, ammirai l’architettura della Chiesa, salutai Mario e ritornai a casa.
   Mangiai un uovo fritto e un po’ di pane con olio, cacio e noci, poi cercai di riposare sdraiandomi sul letto, ma non vedevo l’ora che arrivasse la sera. Avevo voglia di dormire e di svegliarmi il giorno dopo per andare al Centro di Ascolto e raccontare dell’incontro con Mario.
   Il giorno dopo raccontai per sommi capi dell’incontro con Mario, perché fuori c’era la fila dei poveri che aspettavano per il colloquio, ma in tutti i miei amici operatori del centro sbocciò un sorriso di saluto.
   Giuseppe,  60 anni. Da tre anni viveva per strada. Mancato cantante, oggi clochard con licenza. Non aveva la barba incolta, era, a suo modo, elegante, era uno di noi, ma era un  uomo senza fissa dimora. Una delusione d’amore l’aveva portato ad uno stato di depressione e di emarginazione.
    Amava raccontarsi e per questo era venuto al Centro. Mi disse: - Io vivo all’antica e secondo le buone usanze dei contadini. Mi sveglio alle 5 del mattino, mi lavo il viso, sistemo le mie cose, m’infilo il cappotto, metto il  copricapo di lana e poi sono pronto per la mia giornata “vagabondiva”.
    Giuseppe spingeva una vecchia carrozzella con sopra un grande zaino ben sistemato e una borsa 48 ore grigia. Sandali francescani un po’ vecchiotti e giornale che fuorusciva dalla tasca del cappotto. Sulla carrozzella, che sembrava quella di un “vu cumprà”, erano sistemate, ben in ordine, le sue cose. Un telo di plastica copriva tutto. Ogni mattina si portava davanti alla porta di un bar e suonava una dolce melodia con la sua armonica a bocca, o  pensava, o s’inventava un gesto carino da mettere in atto per i passanti, con la speranza che qualcuno dei conoscenti gli offrisse il caffè o forse anche una brioche. Si avviava poi verso la sua giornata, cercava una panchina libera nei giardinetti, tirava fuori il giornale e lo leggeva. Di tanto in tanto alzava lo sguardo per osservare la gente accalcata alle fermate degli autobus o che con passo frettoloso si avviava verso il luogo del lavoro. Certo, così messo,  non sembrava un barbone.  
      La caduta di Giuseppe, quello che l'aveva fatto deragliare, fu una carcerazione.
Fino a sei anni prima, Giuseppe era una persona tranquilla e svolgeva l’umile mestiere del calzolaio nel suo piccolo paese d’Abruzzo. Per anni aveva sognato di fare il cantante e di esibirsi a Sanremo, ma non aveva trovato mai il Santo raccomandante. Si era unito sentimentalmente con una donna rumena, ma non avevano avuto figli. Se di lui si poteva dire tutto il bene possibile, non altrettanto lo si poteva dire per la moglie, un po’ chiacchierata perché di facili costumi. Giuseppe evitava di dare ascolto alle dicerie sulla moglie e pensava di lasciare il paese per andare a vivere nella grande città. Il citrullo del paese un bel giorno iniziò a passare e ripassare davanti alla sua bottega e ad apostrofarlo con il termine di  "cornuto”. Giuseppe incassò la provocazione per cinque giorni, ma il sesto giorno perse il controllo e gli tirò un colpo con il trincetto ferendolo gravemente. Uscito dalle carceri aveva cercato la sua famiglia, la moglie, ma tutti erano scomparsi. L’amarezza, lo sconforto e l’abbandono  lo portarono a lasciare il paese e ad avventurarsi per le strade del mondo.
    Parlava quattro lingue: italiano, inglese, francese ed arabo, ma tutto quello non gli bastava a trovare lavoro che restava così una meta irraggiungibile. Ora era di casa in alcuni Centri di accoglienza e ci andava spesso a trovare i vecchi amici e a fare quattro chiacchiere con loro.
    Era riconoscente per l’ospitalità che gli dava la stazione Ostiense dove dormiva. Mi disse: - La sala è riscaldata, si dorme come fosse un albergo. Vivo di espedienti, sì. Però non rubo e non chiedo l'elemosina per strada. Per me è una questione di orgoglio personale. Conosco qualche amico che ogni tanto mi allunga 10 euro. Io non sono insistente, non assillo nessuno. Per mangiare bisogna usare il cervello e basta non sentirsi barbone.  Conosco quasi tutte le mense della Caritas e vado avanti e indietro, ora da una, ora da altra: Esercito della salvezza, Comunità di Sant'Egidio, Suore della carità di Madre Teresa di Calcutta. Spesso  incontro  vecchi amici e così, per un momento, mi  passa la malinconia. Qualche volta vado alla mensa di Ostia,  a Colle Oppio, a Via Marsala o a Prima Valle. Quando mi sento stanco mi fermo davanti a qualche trattoria e quelli, appena si accorgono di me,  mi danno da mangiare un po’ di avanzi. Potrei lavorare ancora qualche anno, ma non trovo nulla. Mangiare gratis è un fallimento.
    E mentre gironzolo per le vie del centro, rincontro Ludovico. Sembra appena sbarcato da una nave. Pensieroso cammina per il quartiere. Parte ed arriva con ogni mezzo pubblico. Anche lui conosce mense religiose, centri di assistenza, bagni pubblici: sembra un ufficio d’informazioni turistiche.
- E’ una grossa spesa la pipì giornaliera: 50 centesimi ogni volta e pensare che io, durante la giornata, bene che mi vada, ho bisogno di andare al bagno almeno sei volte.
    A pranzo preferisce la trattoria di Via Adige, a cena dai francescani dove può chiedere anche tre piatti di “primo”.  E poi, prima di andare a letto,  ripassa dal bar, dove ogni sera gli regalano quello che è avanzato: pizza, panini ed altro. Non sentirsi barbone è già un cammino verso la civiltà.
    Le condizioni di grave marginalità e povertà estrema, rimandano ad una situazione di vita in cui la povertà non assume un significato meramente economico, ma investe in toto la condizione esistenziale della persona.
    Il “senza fissa dimora” è una persona che è bisognosa di cura e sostegno non solo perché vive senza un alloggio e in un contesto di precarietà materiale estrema, ma anche perché è una persona sola.
    I “nuovi poveri” espulsi da un mercato del lavoro sempre più competitivo e selvaggio hanno perso ogni speranza. Ci si ricorda di loro  solo in tempo di  elezioni e solo se elettori. Se abbattere la povertà ora più che mai è un’illusione, per il cristiano dev’essere eterna vocazione.  
La crisi ha provocato un calo del mercato del lavoro e messo tante famiglie in difficoltà. Non più solo barboni ma normali impiegati con mille euro di stipendio hanno bisogno d'aiuto: i poveri aumentano di giorno in giorno.
    Vivere sulla strada è tremendo. A volte si può essere anche oggetto di cattiveria gratuita come quella messa in atto da alcune amministrazioni comunali che  per togliere dalla vista lo spettacolo della povertà estrema, hanno fatto applicare dei braccioli di ferro sulle panchine, nella parte centrale, per evitare che i poveri senza un tetto e senza un letto, quelli costretti a vivere sulla strada, possano coricarsi sopra.
     Mario venne ancora a  trovarmi per portarmi un invito: per il giorno delle Palme i senza tetto si sarebbero ritrovati  nella Chiesa di Dio Padre Misericordioso trasformata per l’occasione in una grande sala da pranzo, dove avrebbero potuto una volta tanto fare un pasto completo, serviti  da alcuni volontari calciatori della Roma e della Lazio.
    Accettai l’invito e andai. Fra i poveri spiccava la figura di una ragazza di colore di straordinaria bellezza con un bimbo in braccio, un angioletto nero con due occhi vispi che brillavano come stelle. Non sapevo da che parte andare, ma anche in quell’occasione mi venne incontro Mario che mi presentò a molte persone  e poi insieme ci avvicinammo alla ragazza che intanto era stata raggiunta dal suo compagno. Uno spettacolo indescrivibile quello della giovane coppia e del loro bambino. Povertà e ricchezza danzavano e illuminavano i volti di tutti i presenti. Nessuno prendeva posto a tavola se non prima avesse toccato o avesse baciato quel bambino che stava in braccio alla mamma o al papà e che poi ha fatto il giro della “sala” passando di braccia in braccia fra quasi tutti i presenti. Tutti erano curiosi di sapere da dove quell’ angioletto nero fosse sbucato, come mai si trovasse in mezzo a noi. Accomodati a tavola, il parroco prese la parola e iniziò a raccontarci. Ci disse che Paolo ed Elena, i genitori dell’angioletto, erano persone semplici, oneste, scappate dalla guerra del loro paese e venuti in Italia per lavorare e per continuare a vivere. Avevano percorso buona parte della nostra penisola in lungo e in largo. Erano entrambi laureati, ma pur di vivere onestamente avrebbero accettato di fare qualsiasi lavoro. Sapevano della crisi economica che attraversava il mondo intero, della disoccupazione diffusa, e dei forti problemi abitativi. Non riuscendo a trovare un lavoro nella loro terra,  Paolo ed Elena, ventisei e ventiquattro anni avevano deciso di tentare la fortuna in Italia.
Appena arrivati in Italia Elena trovò un lavoro come badante presso un anziano uomo che però le richiedeva “attenzioni” particolari che lei non fu disposta ad accettare. Lasciò il lavoro e da quel momento per lei ed il marito incominciò l’odissea: senza lavoro, senza casa e con pochi soldi. Il treno divenne la loro dimora e in quel periodo lei si accorse di essere incinta. Freddo e fame fecero il resto. Restarono senza mangiare per tre giorni conseguitivi. Scambiati per spacciatori di droga, furono anche fermati dai carabinieri che nell’occasione si elevarono a benefattori: comprarono loro dei panini ed una bottiglia di coca cola. Continuarono a girare senza sosta, sempre alla ricerca di un lavoro. Arrivano a Catanzaro, Bari, Ancona, Bologna, lavoro non ne trovarono. Viaggiavano senza biglietto e senza una meta. A Roma, alla vista dei controllori, furono costretti a scendere dal  treno e alla Caritas di Via Marsala riuscirono a mangiare un piatto caldo. Per puro caso incontrarono una infermiera loro connazionale, che la sera li fece dormire per qualche notte in una sala del Pronto Soccorso del policlinico San Giovanni. Indirizzati dalla stessa connazionale arrivano alla Caritas di San Roberto Bellarmino dove trovarono un minimo di sostegno e furono indirizzati alle mense per i poveri, ma privi di residenza i servizi sociali non li presero in carico. I giorni passavano, la gravidanza avanzava, mentre lavoro e casa attendevano invano. Elena non poteva vivere in strada e neanche continuare a dormire al Pronto Soccorso. A Largo Prenestre presero il bus 113  e scesero a Tor Tre Teste. La ragazza era stanca, non si reggeva più in piedi. Trovò una panchina occupata in parte da un barbone e si sedette. Alzò lo sguardo verso la “Barca di cemento bianco” (la Chiesa) ed invocò la Vergine Santissima. Raccolse un vecchio foglio di giornale che era per terra, lesse un articolo che la spaventò non poco e  la fece piangere.
    Intanto incominciava a piovere. Il barbone seduto su quella panchina era Mario che le offrì il suo aiuto e invitò la coppia a ripararsi dalla pioggia all’interno della Chiesa o nella  sua roulotte che era parcheggiata oltre la piazza.
    Erano le tre di pomeriggio. Il bambino stava bussando alla vita e una signora che passava da quelle parti se ne accorse e non esitò a chiamare il 118. L’aiutò a portarsi sino all’interno della chiesa per ripararsi dalla pioggia ed aspettò con lei fino all’arrivo dell’ambulanza. Elena piegò con cura quel foglio di giornale e lo pose in borsa. Era  psicologicamente stanca e fisicamente debole (non aveva mangiato nulla). Paolo, prese dalla borsa di Elena, il foglio di giornale e lesse anche lui: - La colpa di essere povera.  Subito dopo il parto, una giovane madre in difficoltà economiche si è vista sottrarre il figlio dal tribunale per i minorenni di Trento. La giovane, senza problemi di tossicodipendenza, ha un reddito mensile di 500 euro e aveva scelto di tenere il figlio”. Questa mamma ha una grave colpa per lo Stato italiano:  è povera… nessuna decisione poteva essere più crudele.  
     Paolo confidò a Mario la paura di Elena. Mario fece il passaparola e in poco tempo la notizia raggiunse quasi tutti i senzatetto dalla Capitale, che manifestarono uno sdegno generale e una grande ribellione interiore.
- Nessuno oserà toccare il nostro bambino. – fu la voce corale dei barboni presenti. Neanche agli animali si tolgono i cuccioli. Tranquillizzarono Paolo ed Elena e giurarono tutti che se dovesse accadere una cosa del genere, tutti i barboni sarebbero scesi sul sentiero di guerra fino all’ultimo combattente. La rete della solidarietà poteva contare su settemila senzatetto. Il Bambino che stava per nascere era il loro “Re”. Intanto davanti al Policlinico Umberto I  arrivavano  clochard  da ogni parte offrendo ai giovani genitori il raccolto delle elemosine della giornata. Si fece sera, ma nessuno sentiva freddo e fame. Passò anche la notte e alle prime luci dell’alba Paolo uscì in strada e gridò: “è nato, è maschio”!
   I mendicanti ora non erano più soli, avevano qualcuno, avevano un bambino su cui versare il loro amore.
    Gesù aveva scelto ancora  i poveri per rivelarsi, abbracciando un progetto di vita che era quello degli ultimi, degli esclusi, degli emarginati, dei soli.
In ospedale, a trovare Elena, arrivò anche la signora del 118.
-  Posso solo darvi una mano e farvi vivere in una piccola casa che ho a meno di un chilometro dove ci siamo incontrati. Non dovete pagare affitto e neanche condominio. Ho tanti amici che vi regaleranno tutto quello di cui avete bisogno. Considero un momento privilegiato  questo mio turbamento di coscienza e mi auguro che sia contagioso. Da oggi non sarete più randagi, non sarete più soli, questo bimbo vi ha resi ricchi. Dio affligge, ma non abbandona. Dio vi ha messo alla prova e Voi l’avete superata – disse la signora con le lacrime agli occhi.
    Cinque giorni dopo Elena uscì dall’ospedale con il suo bambino in braccio ed aveva una casa dove andare.
   Fuori ad attenderla c’erano ben tre automobili e dopo un saluto con i barboni presenti e con qualche curioso, si diressero verso la loro casa.
   Trovarono tutto e tutto era in ordine. Montagne di regali per tutti, vestitini e giocattoli per il bimbo, scorte di latte e di biscotti, una carrozzella ed una culla. Ma oltre a quel benessere materiale, c’era la gioia dei cuori.
    Tra i poveri e Dio c'era una stretta somiglianza e un continuo incontro.  Dio e il povero camminavano insieme e la  luce aveva spento l’oscurità.
                                                                                   avv. Mimmo Marando