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"il Vangelo è la storia di un delitto di cui tutti fummo colpevoli,

e di un perdono di cui tutti abbiamo beneficiato"

cristo.jpg 1.-Nel progetto salvifico dell'uomo e per il momento più sconvolgente della storia, la Sapienza scelse -come sempre- i tempi, i luoghi ed il come della morte di Gesù. Era solo "quello» il tempo: quello che avrebbe nei secoli consentito alla fede di coniugarsi coi Vangeli! Non prima, nè dopo: una morte non in tempi bui ancor oggi avviluppati da impenetrabili nebbie, nè in tempi di mass media e da trasmissioni via satellite. L'uomo non poteva attendere ancora il Verbo della grazia e della verità; non poteva sopportare ancora la propria solitudine: aveva bisogno di un Amico che ne condividesse i travagli, che aprisse la porta alla speranza, che insegnasse la verità e ad amare gratuitamente senza confini.

Scelse il "luogo»: la travagliata Palestina,stretta tra autorità giudaiche e romane,con ben diverse normative(il diritto ebraico era quanto mai complesso, commisto com'era con questioni religiose).

Scelse anche il "modo" della morte. Non un trapasso per vecchiaia nè traumatica per mano d'un uomo. Scelse la morte "in croce" comminata all'esito di un "processo”. Anzi di due processi: uno religioso dinanzi al Sinedrio e l'altro civile dinanzi al governatore.

Non si sottrasse Gesù -tradito da un discepolo, pentitosi per denaro (proprio come oggi!)- alle imperfette leggi degli uomini: accettò il "processo" e «volle» essere giudicato, pur sapendo quale sentenza sarebbe stata pronunziata e quale atroce morte avrebbe subito.

Non rifiutò cioè la "giustizia» dei tribunali: dette a Cesare quello ch'era di Cesare, affermando,in definitiva,il primato, in terra, della giustizia degli uomini, anche se il Vangelo evidenzia la sua "ingiustizia"! Lui,innocente, e due "ladri" sulla croce; perfino un omicida... libero! Una "giustizia" palesemente ingiusta!

Non rileva accertare se i due processi furono o meno legittimi, rituali, esenti o meno da vizi procedimentali. Tanto interessa solo chi abbia a cuore un concetto di giustizia "formale" secondo cui è giusta la sentenza se rispettosa delle leggi processuali. Nè ovviamente rileva se le "responsabilità" di quei processi siano prevalentemente od esclusivamente ebree o romane. Importa invece il "giudizio" espresso ai suo termine: la sentenza.

E fu quella innegabilmente una sentenza ingiusta.

Ed è per questo che ancora oggi,a venti secoli, "quei processo" tormenta le nostre coscienze!

Ingiusta perchè ha tradito il principio del "suum cuique tríbuere', avendo condannato Gesù pur essendo innocente.

Ingiusta perchè contraria alla verità,non tanto perchè il processo sia stato affetto da vizi. Perchè non ogni processo viziato porta ad una sentenza ingiusta, si' come non ogni processo esente da vizi porta ad una sentenza giusta.

Allorchè Gesù rispose a Caifa d'essere "figlio di Dio",disse -e non potè non dire- il vero. Epperò non fu creduto, non gli si volle credere ("I sommi sacerdoti e gli scribi cercavano di impadronirsi di Gesù con inganno per ucciderlo!»), nonostante le sue tante "opere", i molteplici "segni» della sua attività pregnante d'amore, che avrebbero dovuto far riflettere tutti i sinedrini (e non solo Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo). E fu -pur innocente- condannato per bestemmia(reato religioso)!

Ed allorchè Pilato ebbe ad interrogare Gesù,e si rese conto della sua innocenza per il (diverso) capo d'imputazione per il quale gli era stato presentato ("abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, proibiva di pagare tributi a Cesare e diceva di essere il Cristo re"; Lc 23,2), dei tutto privo di fondamento tanto da ammettere "non trovo in lui nessuna colpa", non fu conseguente, ma clamorosamente si lasciò condizionare dalla "piazza" (astutamente strumentalizzata dagli invidiosi sommi sacerdoti) e dalla ragion di Stato (il timore di essere accusato da Roma e rischiare di essere rimosso dall'incarico). E pronunziò -tradendo il dovere d'essere giudice imparziale- la condanna a morte! Un potere che ha sacrificato la giustizia barattandola al consenso d'una folla che rifiutava di conoscere i fatti bastandole solo una vittima sacrificale; e non importava se la condanna a morte attingeva un innocente e -nel previsto scambio di prigionieri per la festa della Pasqua ("volete che vi lasci libero il re dei giudei?")- premiava l'assassino Barabba che veniva così liberato!

Furono quindi due sentenze ingiuste, soprattutto se pienamente rituali, suggellate dai "popolo"!

2.-La Sapienza ha voluto affidare alla storia un messaggio,direi una lezione di rito penale che tante, troppe volte si preferisce obliare: lo scopo d'un processo penale,di ogni processo anzi (che è già una pena!) è quello di giungere ad una sentenza emessa da un giudice terzo, effettivamente indipendente, che sia conforme a "verità". Accertare la verità -nel pieno rispetto dei diritti inviolabili dell'uomo,primo dei quali quello della dignità- su un fatto/reato che si assume commesso: quella materiale,e non già quella meramente formale,che non soddisfa,non può soddisfare le coscienze,e che mina la credibilità nella giustizia, supremo anelito d'ogni uomo.

Occorre ricordare sempre che Cristo venne condannato ingiustamente perchè il Gran Sinedrio -invidioso- tradì la verità,e Pilato tradì -assecondando la folla (il "popolo"!)- anche il suo dovere di giudice imparziale.

In definitiva la Sapienza ha voluto lasciarci, attraverso i Vangeli, la testimonianza di un clamoroso "errore giudiziario". E vuole che venga rammentato nei secoli affinchè uomini di buona volontà operino perchè emerga sempre la verità sull'errore, la giustizia sull'ingiustizia, il primato della dignità dell'uomo sulla barbarie!

Ancora oggi quel processo suona tragicamente a monito non solo per i pubblici ministeri, per i difensori, per i giudici, e direi per i mass media, ma per ognuno di noi facente parte -tutti!- di quella indistinta "piazza" assetata di giustizia sommaria che, priva di carità, fa trasparire invidie, gelosie, rivalse.

Quanti "cristi" sono ancora oggi ingiustamente privati della libertà (per giudici a volte sbrigativi, a volte prevenuti perchè convinti "paladini/ missionari" d'un ordine sociale [quale,poi?] da affermare), processati e forse anche condannati per una giustizia che ricerca consensi -e non la "verità"- per soddisfare una piazza che invoca una giustizia esemplare? Quanti ingiustamente percorrono la via crucis del processo, dileggiati, umiliati (spesso unicamente alle loro famiglie), distrutti nel corpo e nello spirito, nella solitudine più nera, senza incontrare neppure un cireneo o quanto meno una Veronica che compia un gesto di solidarietà? Quanti,come Cristo, giungono al limite della sofferenza fino a dolersi "Dio mio,Dio mio, perchè m'hai abbandonato?"

Tendere finalmente ad un processo "giusto" che sia rispettoso non solo di formali regole di un crudele gioco tra parti contrapposte (accusa e difesa), ma pure della dignità dell'uomo -senza coazioni anche psicologiche- e che quindi, con "amore", si sforzi nella ricerca della verità!

Una "verità» che sia l'obiettivo primario della difesa e dell'accusa, e ancor più del giudice!

Altrimenti "quella sentenza" -paradigmaticamente- peserà sempre più sulle nostre coscienze!


Pubblicato su Avvenire del 30 giugno 1995