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L’argomento della (s)demograzia, di cui sto cercando di individuare i caratteri essenziali e le linee evolutive, si presenta ancora fumoso e difficilmente analizzabile, almeno per una mente di capacità inferiore come la mia. Perché magari qualche persona più intelligente possa contribuire all’analisi della situazione, ho pensato di descrivere alcuni fatti. Ne ho in serbo molti, ma darò la precedenza ad alcuni che riguardano Locri, la città della mia adolescenza.
Il 16 ottobre del 2005, durante inutili (il risultato era scontato) prove tecniche di primarie, a Locri un tizio, completamente vestito di nero (così si raccontò al popolo ignaro) uccise il dottore Francesco Fortugno, che stava chiacchierando con tre o quattro amici nell’atrio del palazzo in cui si stava svolgendo la cerimonia d’investitura di Prodi.
Il mio primo pensiero-devo confessarlo-fu che il povero dottore fosse stato ucciso da un tizio in lutto che attribuiva la morte di un congiunto a lui o ad un omonimo, un po’ perché il delitto non sembrava organizzato in modo tale da assicurare all’omicida una facile fuga, un po’ perché l’abitudine di parlare male senza ritegno dell’ospedale di Locri e di far sorgere sospetti su ogni operazione ivi eseguita era uno sport molto popolare ancor prima che fosse nominata la Commissione Basitone e fosse redatta la misteriosa relazione segregata per motivi ignoti. Solo dopo appresi che il dottor Fortugno era in aspettativa e che quindi non gli poteva essere attribuita alcuna colpa. Non scartai, però, completamente l’ipotesi, considerato che la mia sola esperienza del Pronto Soccorso, risalente all’estate del 2004, quando accompagnai un mio amico settentrionale la cui figlia ventenne aveva una scheggetta nell’occhio, mi aveva dato l’impressione di trovarmi nel botteghino di un cinema di periferia piuttosto che in un reparto sanitario. La ragazza non fu nemmeno guardata ma ricevette un biglietto che la spediva in Oculistica, dove attendemmo invano 2 ore e mezzo tra una piccola folla di gente bendata in vana attesa, in pratica tutto il tempo necessario perché un’altra amica riuscisse a rintracciare per telefono un oculista e fissare un appuntamento.

Ma subito dopo capii che ero uno stupido, dato che due commissioni antimafia, quella romana e quella catanzarese, riunite in pompa magna, dichiararono che si trattava chiaramente di un omicidio politico mafioso. Non potei fare a meno di chiedermi se la commissione d’inchiesta sulla mafia, a 40 anni dalla sua costituzione, dopo aver consumato e soprattutto fatto consumare tonnellate di carta, non dovesse essere sottoposta a una indolore procedura di eutanasia, prima di apprendere dell’attuale presidente, onorevole Forgiane, che in questi giorni corre in Calabria tra un convegno e un altro sulla legalità, che finalmente si sta per percorrere una via rivoluzionaria, quella di varare un testo unico delle norme antimafia ed antiusura. Immagino che il compito sarà affidato a famosi esperti e, non come sarebbe opportuno, ad un consigliere di terza classe di un ministero o del parlamento. Con questa idea brillante la Commissione si assicura la sopravvivenza, continuando a far scarabocchiare a un numero infinito di impiegati pubblici -come dice il poeta- innocenti fogli di carta. Mi piacerebbe sapere quanto pesa sul bilancio pubblico il mantenimento di questa struttura che da otto lustri, producendo poco, contribuisce, senza volerlo, a reclamizzare la mafia come il più tipico made in Italy.

Ho ancora letto e riletto lo sgangherato art. 117 della Costituzione, regalatoci nel 2001, senza che gli strenui difensori della Carta si scandalizzassero nemmeno un pochino ( come è successo con le modifiche apportate dal governo di centro destra),ma non sono riuscito a trovare nemmeno uno straccio di giustificazione delle spese relative alla costituzione ed al funzionamento di una commissione antimafia regionale o all’assunzione di esperti consulenti da parte del Governatore in materia di ordine e sicurezza pubblica. Ma sono dettagli che interessano poco, tanto fra qualche anno qualche sezione della Corte dei conti farà un predicozzo e finirà tutto lì.

Da questa relazione il primo corollario: i principi costituzionali possono essere ignorati o violati purchè non si tocchino interessi diretti dei centri di potere cui spetta farli osservare. In parole povere non si è levata una sola voce contraria a quella che chiaramente è una pesantissima interferenza sulle indagini e su una attività di competenza esclusiva del giudice, senza una minima giustificazione ed in assenza di qualsiasi serio procedimento cognitivo. Più concretamente si è creata una situazione tale che, come è già accaduto innumerevoli volte in Italia, qualsiasi tentativo di sollevare qualche obiezione sulla tesi precostituita, provoca l’immediata proscrizione e la gogna con l’accusa di depistaggio, tecnica terroristica inventata da un signore che ora siede in parlamento. L’enunciazione ufficiale del movente attribuita dai giornali alla DNA: il dottore Fortugno è stato ucciso dalla ‘ndrangheta per bloccare il rinnovamento. Non ci crede nessuno per diversi motivi: il primo perché non solo il dottore non era un homo novus e nemmeno aveva dato alcun segno di rottura, il secondo perché, se questo fosse vero, ne discenderebbe il corollario che la maggioranza dei consiglieri non uccisi sono solidali con gli interessi mafiosi.

Una prova di questa situazione, che non scandalizza nessuno, può trarsi dalla vicenda del ricorso al Presidente della Repubblica della vedova del dottor Fortugno, che ha preannunciato tramite i mezzi di comunicazione di massa, di volere chiedere a Giorgio Napoletano che l’indagine fosse condotta direttamente dal dottor Grasso della Direzione Nazionale Antimafia, che aveva affermato a chiare lettere che si trattava di omicidio politico mafioso. Lei, infatti, non poteva accontentarsi dell’arresto di quei quattro sconosciuti personaggi di quindicesimo piano coinvolti nell’omicidio del marito.

In uno stato diverso, come speriamo che ne esistano, un impiegato direttivo della Presidenza avrebbe scritto alla Signora Fortugno di farsi consigliare dal suo avvocato sulle norme in materia di competenza della DNA, facendole rilevare la scorrettezza di pubblicizzare la sua istanza, prima che il Presidente ne fosse informato. Ma questo sarebbe successo in uno stato in cui il principio di uguaglianza dei cittadini non fosse confinato a pompose esercitazioni retoriche sulla costituzione e non trovasse una valida contrapposizione e limitazione nel principio non scritto del politicamente corretto e del politicamente conveniente.

Un’ulteriore prova della scorrettezza di un giudizio affrettato sulla natura dell’omicidio sta nel fatto che più passa il tempo e meno si coglie la presenza di un’organizzazione criminale al delitto Fortugno, tanto che la stessa vedova ha spostato l’attenzione sui fatti di carattere amministrativo e su contrasti politici. Tutto questo non ha impedito che la direzione delle indagini venisse assunta subito dopo dalla DDA di Reggio, senza tenere alcun conto dei diritti degli imputati e dell’interesse di mantenere le indagini il più vicino possibile al luogo del reato. Sulle violazioni del primo comma dell’art. 25 della Costituzione, incautamente copiato dai costituenti dallo statuto albertino, si potrebbero scrivere volumi! Ne farò un capitolo a parte, quando tenterò di tracciare la teoria delle norme devitalizzate, volgarmente definite pragmatiche.

Qualche parola per concludere, parlando del principio del parafulmine. In qualunque regime di (s)democrazia è necessario destinare uno o più luoghi allo scarico delle tensioni al momento opportuno, individuando prima le aree dove nessuno reagirà.

Un esempio. L’ispezione presso l’Ospedale di Locri. Sei mesi di lavoro, la stesura di una relazione celebrata come esemplare, la nomina di tre commissari, lo sbandieramento delle presunte infiltrazioni mafiose, l’irrilevanza dei risultati ai fini delle indagini, la segregazione. Non nascondo che malignamente, alla diffusione della notizia mi frullò subito in testa una poesia di Catullo che sosteneva che il suo amico, se davvero la sua ragazza fosse stata bella, non gliel’avrebbe tenuta nascosta.

Facciamo finta che non esista né la celebratissima legge sulla trasparenza amministrativa né quella sulla tutela dei dati personali. Ma è lecito stendere una grave ombra di sospetto su un intero nosocomio, creando le condizioni che impediscano ogni legittima reazione? Il fatto più scandaloso è questo. Nemo tenetur se detegere, specialmente il potere (s)democratico. Penso, invece, a qualche amico del liceo che lavora in quell’ospedale e immagino che, come lui, ci siano centinaia di persone per bene nella stessa struttura sanitaria, così come abituate ad essere trattate come cittadini di seconda classe da non tentere nemmeno una protesta civile contro questo gioco al massacro e senza nemmeno inviare una lettera all’autorità per la tutela dei dati personali, per chiedere se e come il loro nome compare nella famosa relazione. Penso anche come possa efficacemente contribuire alla guarigione dei malati la sensazione di trovarsi alla mercè dei mafiosi o succubi della mafia.
E qui mi fermo, perché tracciare il profilo del cittadino nella regione in cui la mafia ha il controllo del territorio – come affermano i cosiddetti esperti – richiede un capitolo a parte.

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