Giovambattista Bonfà di Samo emigrato a Bologna. Il senso religioso delle rovine
di Vito Teti

(Articolo gentilmente inviato ad Ernesta Adele Marando dall'autore Professor Vito Teti e già pubblicato su “Il Quotidiano della Calabria " il 27 agosto 2008, p. 44).



madonna nera.jpgEsistono luoghi della Calabria che continuano a vivere anche a dispetto del lorosamo castello pitagora.jpgabbandono. Perché ciò avvenga occorre che qualcuno li ricordi, li sappia ri-guardare, conferendo loro un nuovo senso.
Esistono tanti custodi di memorie e dei luoghi, capaci di assegnare un sentimento anche alle rovine. Sono persone sconosciute, silenziose, che non fanno clamore. Sono loro, con la loro particolare pietas per i posti in cui sono nati, a tutelare, salvaguardare, custodire anche tesori artistici, architetture sepolte, schegge di mondi che concorrono a riscrivere la storia dei paesi e a gettare semi per una nuova vita. Giovambattista Bonfà è nato a Samo nel 1920.

Il paese della sua infanzia e della sua giovinezza praticamente si era “costruito” con lui e con quelli della sua generazione.

Dopo la distruzione e l’abbandono di Precacore, a seguito dei devastanti terremoti del 1905 e del 1908, il
terremoto 28 12 1907 px150.jpg nuovo abitato fu ricostruito in una località vicina e prese il nome di Samo, antica e mitica città magno greca, dove, secondo una tradizione letteraria erudita, sarebbe nato Pitagora.

Durante la seconda guerra mondiale viene ferito ad una gamba in maniera grave, torna in paese, e nei primi anni cinquanta si trasferisce a Bologna. Sposa una donna della provincia bolognese, con la quale ha due figli e raggiunge, con diverse attività commerciali, una condizione di agiatezza.


samo crepacore.jpgNon dimentica mai il paese di nascita, e non dimentica i ruderi dell’antico abitato, dove da bambino si recava a giocare, e che nei racconti dei grandi era raffigurato come una sorta di “paradiso perduto”, anche se quelle case vuote e sventrate aggrappate alla collina e alle rocce parlavano di catastrofi, di fatica e di fughe.
Le rovine, che scorgeva dal nuovo paese dovevano apparirgli come qualcosa di molto personale, di intimo, e costituivano i luoghi della sua nostalgia. Gli anziani e qualche libro di storia locale gli sussurravano, come una sorta di gioioso scioglilingua, i nomi dell’ antico borgo, Precacore, Crepacore, Pelicore, Percore, Petracore.

«Ah, crepacuore! Ah, crepacuore!» avrebbe esclamato una donna sventurata, forse la duchessa del luogo, che nel terremoto del 1349 aveva perso il marito e sette figli. «E da questa ripetuta esclamazione il borgo trasse il nome di Crepacore, or per anagramma cangiato in Precacore», scriveva Vincenzo Tedesco in un libro pubblicato a Napoli nel 1856.

Giovambattista Bonfà avvertiva una sorta di “crepacuore” pensando ai luoghi, dove un tempo si svolgeva la festa del santo patrono del paese, di cui portava il nome.

Nel 1963 guarisce miracolosamente da una “brutta malattia”, è sicuro di aver ricevuto una grazia, e decide d’ingrandire l’antica grotta nell’antico abitato, il “santuario di S. Giovanni della Rocca”, dove veniva venerato il santo. Al posto dell’affresco deturpato in precedenza da vandali, fa deporre una statuetta del santo alta 60 cm, con la pecorella al piede e non sul braccio, come nella tradizionale iconografica. L’anno successivo, il 28 agosto, vigilia della festa che si celebra nel nuovo paese, viene organizzato il primo pellegrinaggio alla grotta, in presenza di due padri francescani provenienti da Bovalino. All’interno della grotta vengono eretti un altare in marmo e una cripta, poi viene costruita una chiesetta con statue della Madonna e di S. Giuseppe e pannelli scultorei raffiguranti momenti della vita del Battista. Una seconda statuetta in stucco e gesso, con la pecorella in braccio al santo, ha poi sostituito quella precedente.

Il tragitto che conduce da Samo a Precacore accoglie la statua della Madonna di Lourdes, pannelli raffiguranti l’ultima cena, la Via Crucis e la vita e i miracoli di San Giovanni.

Ho incontrato Giovambattista Bonfà il 28 agosto del 2002, vigilia della festa nel nuovo abitato. Sostava davanti alla grotta, in compagnia di familiari ed amici. Riceveva, come un moderno patriarca laico, i saluti della gente. Veniva riconosciuto e ringraziato come l’ideatore e l’inventore di questo rito d’identità, che riporta al passato. L’Occidente, dal crollo dell’Impero romano (ma ancora prima nell’antichità classica) al crollo delle Due Torri, ha prodotto una ricca letteratura sulle rovine. I

l senso di fine e di angoscia, di caducità e di terrore, di melanconia e di attrazione, di cui parlano soprattutto i viaggiatori del Grand Tour e poi il flaneur e i “camminatori” dell’Ottocento e del Novecento (da Baudelaire a Benjamin), meriterebbero di essere accostati, per avere altri punti di osservazione, al “senso locale” delle rovine, al sentimento struggente che accompagna quanti anche nei più piccoli “luoghi”, nei “resti”, negli “scarti” della modernità sanno scorgere vicende che li riguardano e che non si vogliono cancellare.
lago costantino.jpg

san luca.jpgIl pellegrinaggio postmoderno tra le rovine, inventato da un amante delle tradizioni, ha contribuito alla rimodulazione di antiche identità locali, alla nascita di una rispettosa percezione dei resti del passato, a fare conoscere un sito di struggente bellezza (dall’alto si scorgono le cime dell’Aspromonte e le colline, le gole della fiumara La Verde e il mare, i paesi appollaiati e i doppi lungo le coste).

Il ritorno rituale della gente nell’antico abitato ha alimentato visite e “interventi” di studiosi, escursionisti, turisti, archeologi, abitanti dei paesi vicini, emigrati ed ha contribuito ad avviare opere di restauro e di recupero della chiesa di San Sebastiano, di cui si riconosce l’architettura bizantina, e della chiesa di San Giovanni, con tracce di un affresco della Madonna Nera.

Bonfà mi ha accolto con ospitalità e generosità antiche, mi ha invitato nella sua casa di Bologna (dove non sono riuscito ad andare) e di Samo; mi ha consegnato immagini del santo e della Via Crucis e anche le sue memorie e le sue nostalgie.
L’ho rivisto, di nuovo, per l’ultima volta, in occasione della festa, nel 2005. Qualche mese fa le sue condizioni di salute si sono aggravate. La figlia, medico a Ravenna, l’ha portato con sé per curarlo meglio. Continuava a ripetere, fino a quando ha avuto voce per parlare e farsi comprendere che voleva tornare a Samo. E’ morto la sera del 24 agosto, organizzando quasi il suo ultimo viaggio di ritorno per la festa nel paese, dove, per suo ardente desiderio, sarà seppellito.
Il funerale verrà celebrato nel pomeriggio del 27, vigilia del pellegrinaggio alla Rocca. Il viaggio tra i ruderi, quest’anno, diventerà anche un rito per ricordare un uomo che, con amore e devozione, ha saputo custodire luoghi e memorie, storie e leggende di un piccolo grande universo, che si è portato sempre dentro.