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bussola 40px.jpgDa L'Occidentale riportiamo un articolo di ieri, 25 ottobre 2008, scritto da Giovanni Marizza. Articolo che riteniamo interessante e sul quale vale la pena fare qualche riflessione. 


bandiera europea.gifOltre il documento di Solana - Dieci suggerimenti per la Strategiasolana.jpg europea di Sicurezza e Difesa

Il più grande merito del documento “Un’Europa sicura in un mondo migliore” - redatto cinque anni fa dallo staff di avier Solana, il responsabile europeo della “politica estera e di sicurezza comune”, meglio conosciuto come “signor PESC” - è stato quello di aver finalmente messo per iscritto l’ambizione europea di essere un “attore globale”. A quel tempo i sinceri europeisti tirarono un sospiro di sollievo: l’Europa non era più il gigante economico e il nano politico della guerra fredda, non era più l’impotenza incapace di parlare con una voce sola, quella che non era in grado di fermare la guerra nei Balcani, quella che delegava oltreatlantico la propria difesa. Era giunta l’ora di assumersi le proprie responsabilità anche nel settore della sicurezza. Dopo un lustro, è ora di tirare le somme e di individuare possibili margini di miglioramento per i contenuti di quel documento storico.

Innanzitutto va osservato che non si diventa “attori globali” quando la politica non ce lo permette. È ben vero che le elezioni sono la massima espressione della democrazia, ma esiste anche il rovescio della medaglia: negli USA un anno su quattro (il 25% della legislatura) va perso a causa delle elezioni e in quell’anno non si decide niente. Questa situazione si riverbera anche sulle relazioni internazionali, con i Paesi amici ed alleati, e sul funzionamento delle organizzazioni internazionali: in quel certo anno vari dossier vengono volutamente lasciati ammuffire nell’attesa del prossimo inquilino della Casa Bianca. In Europa, invece, quella famosa percentuale sale al 100%, dato che ogni anno sono previste elezioni in almeno cinque o sei Paesi. Eppure il rimedio ci sarebbe: basterebbe allineare progressivamente le scadenze elettorali nazionali e quelle europee fino a farle raggruppare in un solo anno, se non addirittura nello stesso mese e nello stesso giorno.

In secondo luogo non si diventa “attori globali” quando ogni Paese continua a considerare stranieri (se non avversari) gli altri 26 membri dell’Unione. E’ davvero necessario che ogni Paese continui a mantenere 26 ambasciate, 26 ambasciatori e 26 addetti militari negli altri Paesi dell’Unione, come si faceva prima della prima guerra mondiale? A ben pensarci, pochi argomenti non sono delegabili all’Unione Europea: la lingua, la cultura, l’arte. Uno snello ufficio da addetto culturale potrebbe efficacemente sostituire tutte le sovrastrutture diplomatiche che ogni Paese membro dell’Unione mantiene in tutti gli altri Paesi membri, sovrastrutture ridondanti e dispendiose che non hanno più ragione di esistere dal momento che la sicurezza è indivisibile e la difesa, così come la diplomazia, sta per diventare comune. Un ambasciatore italiano ha senso in Argentina o in Giappone, non in Francia o in Germania. E un addetto per la difesa italiano ha senso in Sudafrica o in Thailandia, non nel Regno Unito o in Slovenia.

In terzo luogo non si diventa “attori globali” sperperando le risorse, soprattutto in tempi di crisi finanziaria come i nostri. E’ proprio necessario che nei 27 Paesi dell’Unione si debba mantenere l’organizzazione pletorica di 27 eserciti votati alla difesa di frontiere che non esistono più, 27 marine e 27 aeronautiche, 27 accademie militari, 27 accademie navali e 27 accademie aeronautiche, con 27 scuole di guerra, anch’esse moltiplicate per tre? Anche in questo campo esistono notevolissimi margini in cui effettuare tagli di rami secchi e notevoli risparmi di fondi. Non si tratta di spendere di più ma di spendere meglio. In quest’ottica, è opportuno concretizzare quanto prima l’idea di uno European Security and Defense College.

Inoltre non si diventa “attori globali” adottando strategie tristi e timide che rinunciano all’aspetto comunitario e privilegiano quello intergovernativo, procedendo in ordine sparso. Tanto per fare un esempio, la strategia europea per l’Asia Centrale del 2007 fa notevoli e preoccupanti passi indietro rispetto alla strategia di Solana del 2003. Nel documento dello scorso anno il soggetto non è più l’Unione Europea ma diventa “L’Unione Europea e i suoi Paesi membri”, cosa che nel corso del seppur breve documento viene ripetuta ben tredici volte. Non solo, ma tutti i Paesi membri vengono inspiegabilmente invitati ad aprire nuove ambasciate nelle repubbliche centrasiatiche alla faccia del “servizio diplomatico comune” che solo quattro anni prima veniva auspicato.

In quinto luogo non si diventa “attori globali” senza una politica nucleare comune. E’ ben vero che il nucleare militare fa drizzare i capelli in testa all’europeo generico medio, ma quello civile e il connesso aspetto energetico meritano di essere considerati da una visione politica comune europea.

E non si diventa “attori globali” senza una politica spaziale comune. La UE ha già inglobato fra le proprie capacità il Centro Satellitare di Torrejon, un assetto pregiato che apparteneva all’ormai disciolta Unione Europea Occidentale (UEO). Viene da chiedersi perché l’UE non inglobi anche l’ESA, l’Agenzia Spaziale Europea, che dovrebbe diventare un’agenzia dual-use che gestisca sia i programmi spaziali civili che quelli militari. Allo stesso modo, anche il sistema di navigazione satellitare “Galileo” dovrebbe essere accessibile anche ai militari, superando così quell’autolesionistica allergia alle uniformi di cui l’Europa è stata vittima per troppo tempo.

In settimo luogo non si diventa “attori globali” se non si razionalizzano le risorse e si continua a sopravvivere senza un mercato europeo della difesa, senza un comune sistema di intelligence, senza standards comuni per le comunicazioni, senza una forza europea di protezione civile, senza una guardia costiera europea che affronti in maniera comune il problema dell’immigrazione clandestina, per lo meno nel Mediterraneo. Nel corso della recente riunione informale di Deauville in Francia (2 ottobre 2008) i ministri della Difesa europei hanno auspicato l’adozione di simili standard comuni, ma la loro voce in Europa conta fino ad un certo punto, dal momento che essi possono riunirsi solo in modo informale, senza prendere decisioni. Strano ma vero: il Consiglio Europeo esiste ai livelli di tutti i ministri possibili e immaginabili, tranne quelli della Difesa.

Inoltre, e siamo all’ottavo punto, non si diventa “attori globali” con bilanci comuni irrisori. Il bilancio dell’Agenzia Europea di Difesa, organismo che purtroppo non è ancora comunitario, è di 25 milioni di euro all’anno. Niente in confronto al pur magrissimo bilancio della difesa italiana che è di 20 miliardi di euro. Il che è nulla in confronto ai 200 miliardi dei Paesi europei, che a sua volta impallidisce in confronto ai 400 miliardi della difesa USA. Ma i 200 miliardi di euro spesi annualmente dai Paesi UE rimangono “sprecati” per il 75%, dal momento che solo il 25% delle forze terrestri sono impiegabili al di fuori dei confini nazionali, perché la deployability ancora non esiste.

E che dire delle operazioni reali sul terreno? Non si diventa “attori globali” senza assumersi le proprie responsabilità. E’ noto, in base all’esperienza operativa maturata in dozzine di missioni dal crollo del muro di Berlino in poi, che in operazioni di stabilizzazione e ricostruzione di un certo Paese in crisi il successo arriva soltanto se il rapporto fra soldati impiegati e popolazione civile è superiore a 20 ogni mille abitanti. In Bosnia la media era di 23 soldati ogni mille abitanti e il successo è arrivato. In Kosovo la media era di 24 soldati ogni mille abitanti e anche in questo caso i successi ci sono stati. In Somalia, invece, quella cifra era 4,5 e la comunità internazionale ha perso. In Iraq siamo a 6 soldati ogni mille abitanti e le cose vanno tutt’altro che a gonfie vele. Come si può stabilizzare l’Afghanistan, dove i soldati sono 0,5 ogni 1.000 abitanti? Se in Libano ci fosse la stessa sciagurata percentuale, la missione UNIFIL dovrebbe essere composta da 20 soldati.

E’ inutile, da parte europea, continuare a inventare modeste operazioni di 200 soldati o 200 poliziotti disarmati che “osservano” il contendente più debole e “vengono osservati” da quello più forte, cosa che sta accadendo con la neonata, modesta, timida missione in Georgia.

Infine, non si diventa “attori globali” se non si guarda lontano. La PESD (politica europea di sicurezza e difesa) ha a disposizione cinque comandi operativi messi a disposizione da altrettanti Paesi membri (Regno Unito, Germania, Francia, Grecia e Italia), ma questi non pianificano: non agiscono ma reagiscono alla situazione contingente, quando la crisi arriva. Fra i compiti delle forze europee - chiamati “compiti di Petersberg” dalla località in cui vennero definiti in un vertice dell’UEO nel lontano 1992 - il compito più semplice è rappresentato dalle operazioni di evacuazione di cittadini europei da aree di crisi. Il luogo più probabile per una operazione del genere era Beirut. Ebbene, dal 1992 in poi, nessuno in Europa ha mai pensato a pianificare un’operazione di evacuazione di civili da Beirut, con il risultato che nell’estate 2006, quando è scoppiata la guerra fra Israele ed Hezbollah, ogni Paese europeo è intervenuto in ordine sparso con le proprie navi e i propri aerei, all’insaputa degli altri, con il solito spreco di personale, mezzi, tempo e risorse finanziarie.

Questi dieci punti presi in esame non rappresentano certamente i dieci comandamenti, ma se l’Europa ha la seria intenzione di rivedere coraggiosamente la propria strategia, non ha che l’imbarazzo della scelta.