antonino-musolino-130-px“Se è difficile fare il medico non è neppure facile fare il paziente”.
Fare il medico oggi richiede notoriamente un curriculum di studi, una lunga pratica, aggiornamenti, « stages » ed uno studio ininterrotto. Negli Stati Uniti si ritiene che un sanitario degno di tale nome, dopo cinque anni che non si aggiorna non è più in grado di fare convenientemente il medico. Certo, la medicina accresce giorno per giorno le sue conoscenze e tenervi dietro comincia ad essere sempre più faticoso e complicato anche per il più solerte e coscienzioso dei medici, specie per quelli che affrontano la medicina generale che, per definizione, spazia in tutto lo scibile medico.


Le cose poi si complicano se solo si considera che, anche nei centri clinici più
accreditati ed organizzati, malgrado l’ausilio delle tecnologie diagnostiche sempre più
sofisticate, in un’alta e significativa percentuale di casi, non si riesce a raggiungere
una vera diagnosi che rimane l’obiettivo primario di ogni buona medicina.
In tale oneroso compito, l’uso del computer e di internet, attraverso collegamenti a siti
professionali di banche dati, consente al sanitario che vuole restare sempre al passo
con i tempi, di fugare eventuali dubbi ed approfondire specifiche tematiche.
« Capire» la malattia contro cui si combatte, anche se, come visto, non è sempre
agevole, comporta un percorso, un iter diagnostico, a volte lungo e faticoso, al
termine del quale si può ragionevolmente impostare una terapia mirata.

Troppo spesso, però, si sentono frasi come ad esempio - il mio medico mi ha (non
mi ha) indovinato la malattia - facendo pensare ad un sanitario che, attraverso una
sfera di cristallo e con un atto divinatorio, abbia identificato (o meno) il malanno.
Non è raro poi che un malato ambulatoriale si lamenti che il sanitario sia passato
rapidamente alla prescrizione senza “visitarlo”, o magari gli “ordini” i farmaci anche
per telefono. Sicuramente, in alcuni casi, può essere biasimevole tale atteggiamento,
anche se le motivazioni di tali comportamenti, spesso sono più « complesse » di
quelle che possono apparire a prima vista. La pletora di malati da visitare, le sfibranti
e logorroiche lamentele caratteriali di alcuni pazienti, le tante persone
costituzionalmente ipocondriache che temono di avere ogni giorno una nuova
malattia, gli affezionati incondizionati delle medicine, sono tutti elementi che
possono essere portati, a torto o a ragione, come delle attenuanti generiche per
giustificare il comportamento a volte troppo frettoloso del medico.

E’ pur vero che, quanto meno nella medicina di base, il sanitario si occupa di
pazienti che conosce da anni e che quindi non necessitano, in genere, di grandi
investimenti in termini di tempo da consacrar loro ad ogni consultazione.
Non si può però sottacere che l’ammontare del tempo dedicato ad un malato può
essere importante se non, a volte, rivelarsi decisivo per arrivare ad una corretta
diagnosi. Infatti non sempre si riesce a capire in tempi brevi, anzi non è infrequente
che un dettaglio riferito, quasi per inciso, dopo una lunga ed accurata anamnesi
(ovvero tutte le informazioni mediche passate e presenti del malato) può, come
d’incanto, squarciare il velo dell’ignoto fornendo su un piatto d’argento la chiave del
rebus diagnostico o, per lo meno, assicurare un orientamento utile per la
programmazione di ulteriori e più mirati approfondimenti strumentali con ovvio
beneficio, non solo per il malato, ma anche per l’esauste casse del servizio sanitario.
Specie nei casi in cui i sintomi possono far pensare indifferentemente sia a patologie
di natura “organica” che a disturbi di tipo “funzionale”, come ad esempio nei disturbi
da somatizzazione dell’ansia, l’amletico dubbio può non essere di sicura, rapida ed
estemporanea soluzione.

Una raccolta minuziosa dell’anamnesi particolarmente attenta alla sequenza
temporale di comparsa dei sintomi e segni clinici unitamente ad un esame fisico
accurato, rappresentano il giusto viatico per imboccare col passo giusto il cammino
diagnostico.
Occorre, inoltre, fare molta attenzione al vero significato di alcune parole
“fantasiose” o “ tecniche “ usate troppo spesso da alcuni pazienti per descrivere
impropriamente i loro malanni.

Ad esempio, dietro la generica lamentela di un comune « giramento di testa »
possono nascondersi dei sintomi tra i più disparati e proteiformi che a volte sono
banali mentre in altre occasioni, purtroppo, possono non esserlo affatto.
Il medico deve quindi capire i termini usati dalla persona che ha davanti
comprendendone le espressioni, o per meglio dire, il reale significato che il paziente
attribuisce loro, e, nel dubbio, aiutarlo ad esplicitare compiutamente il suo dire.
Il sanitario in un certo qual senso deve operare come un “detective”, mettendo
insieme tutti gli indizi come le tessere di un puzzle, che se opportunamente
raggruppate ed incastonate, potranno condurre alla corretta rappresentazione del
“quadro” clinico.
Può succedere però che anche là dove si fa cultura medica universitaria, la cartella
clinica che racchiude l’anamnesi viene a volte considerata una « courvèe » barbosa e
viene troppe volte “affidata” a studenti ancora inesperti per cui le informazioni
possono risultare troppo risicate e superficiali e non raramente inesatte e
contraddittorie.

Recentemente, raccogliendo la semiologia epilettica (sequenza dei segni e sintomi
presentati cronologicamente durante la crisi comiziale) di un malato e confrontandola
con quella rilevata da un’altra cartella clinica proveniente dal Nord Italia, alla fine, si
aveva l’impressione che si avesse a che fare con due pazienti diversi…..
Mi viene, a tal proposito, un bonario e spontaneo sorriso pensando ad una nostra
anziana conterranea dell’entroterra che sapeva esprimersi solo in un dialetto molto
stretto e colorito; si era recata invano a Milano presso una prestigiosa clinica per un
problema non banale che, alla fine, si è potuto “dipanare” ma solo al prezzo di
prolungati e sfibranti interrogatori con l’aiuto dei figli emigrati che fungevano da
“interpreti”…..

Quante volte, di fronte a dati clinici scritti a mano in una grafia che metterebbe a dura
prova anche le capacità e la pazienza di un esperto calligrafo, il medico, seppur
animato dalle migliori intenzioni di decriptare il caso, è costretto ad arrendersi.
Purtroppo, questa banalizzazione dell’anamnesi conduce ad un insegnamento distorto
per i futuri medici, lasciando passare il messaggio, non tanto subliminale, che basta la
diagnostica strumentale (ovvero ecografie, T.C., R.M. etc.) a chiarire la diagnosi,
mentre la raccolta delle informazioni cliniche è solo una formalità ed una perdita di
tempo.
Ma se è vero che non è facile riuscire ad essere sempre un “ buon medico”, è
altrettanto vero che non è neppure facile o scontato riuscire ad essere sempre un
“buon paziente”.

Basti pensare a quella tipologia di malato che assume un atteggiamento passivo e
che non fa alcuno sforzo per riferire convenientemente i propri disturbi, dando al
sanitario la sgradita impressione di dover piuttosto fare il “pediatra neonatologo”.
Questo tipo di paziente ritiene che andare dal medico sia come consultare la “Sibilla
Cumana”: -Io sto male, a voi di darmi il responso e le cure-.
Invece di pensare a come esporre adeguatamente i propri disturbi, non è infrequente
che si preoccupi maggiormente di convincere della gravità dei suoi malanni e della
grande sofferenza fisica o morale che essi gli cagionano, a volte quasi per paura di
non essere sufficientemente creduto o preso sul serio.

Troppe volte la storia clinica viene esposta in modo confusionario, attardandosi su
particolari di nessuna importanza e trascurando magari quello che ha un reale
interesse clinico. Per non parlare poi di quei, per fortuna, rari malati che appaiono
quasi reticenti ed insofferenti ad un interrogatorio pianificato, e che, a mala pena e a
denti stretti, si trattengono dal dire apertamente che un buon medico deve capire
subito le cose…. perchè se insiste a fare domande vuol dire che non ha ancora capito
niente …..

In queste circostanze è superfluo, anzi controproducente, provare a spiegare che
riportare fedelmente una storia clinica è nel loro stesso interesse.
Trattandosi, in ogni caso, di persone malate e sempre meritevoli di umana
comprensione, occorre compatire e cercare con pazienza e rassegnazione di fare del
proprio meglio.

Raccontare una malattia è come fare un buon tema di italiano : non bisogna andare
impreparati, bisogna avere sempre con se il vocabolario (cartelle cliniche, esami, dati
radiologici etc.), occorre rispettare la traccia senza voli pindarici, non saltare di palo
in frasca, e non mescolare il passato col presente rispettando la cronologia degli
eventi ed evitando di usare frasi e termini tecnici di cui non si conosce con esattezza il
vero significato.

Sebbene possa apparire anche sorprendente, non è raro incontrare qualcuno che
soffre da tantissimi anni di frequente cefalea ma che pur tuttavia ha un’enorme
difficoltà a riportarne le caratteristiche più salienti, come ad esempio l’epoca di
comparsa del dolore, la sua durata, l’eventuale carattere pulsante, il tipo di insorgenza
lenta o rapida, tutti elementi che costituiscono le informazioni più basilari per
giungere ad una corretta diagnosi differenziale. Spesso questo paziente appare
sfiduciato e dice di avere provato diverse medicine senza alcun risultato. A volte è
illusorio chiedere quali sono stati i farmaci assunti da cui non ha tratto alcun beneficio
o che addirittura hanno potuto cagionare degli effetti collaterali. Si sente spesso
rispondere sdegnosamente che di questi farmaci non se ne vuol più sentir parlare
perchè ha buttato tutto nella spazzatura, con l’espressione di chi, aspettandosi un
plauso per il suo risoluto operato, conta soprattutto sulle capacità taumaturgiche del
nuovo sanitario che saprà, lui si, dare le medicine giuste.
Ed è allora troppo tardi per ricordare che, quando si è nel labirinto della malattia,
occorre mantenere meticolosamente la traccia delle strade terapeutiche già percorse
invano perché, in caso contrario, si rischia di ripercorrerle, ad insaputa, nuovamente,
considerato anche che uno stesso principio farmacologico può avere diversi nomi
commerciali…

Può non essere superfluo sottolineare che, a volte, per certe malattie, sebbene
correttamente diagnosticate, bisogna « provare » in modo ragionato tutta una serie di
terapie per giungere infine a selezionare quei farmaci che si riveleranno efficaci per
quel determinato individuo senza, se possibile, indurre effetti collaterali. Non esistono
farmaci cattivi o buoni o “ troppo forti “ : se sono in commercio significa,
generalmente, che molti li utilizzano con beneficio e soddisfazione. Il difficile è dare
il farmaco giusto alla persona giusta.

E’ molto probabile che, in un futuro non lontano, la prescrizione terapeutica potrà
avvalersi anche della conoscenza del profilo genetico del singolo individuo e quindi
della sua “compatibilità specifica ” per quel particolare farmaco. In attesa che questo
accada e ogni qual volta la particolare patologia lo richieda, non rimane, al momento,
che continuare a effettuare, con la dovuta cautela, le prove terapeutiche nei modi e nei
termini imposti dal rigore della metodologia scientifica; l’obiettivo rimane sempre
quello di giungere alla terapia più adatta, quella che calza a pennello come un vestito
“cousu-main”.


Il medico, come il sarto, dapprima prende le misure, disegna il modello, taglia la
stoffa, la imbastisce, fa provare il vestito e dopo le eventuali ed opportune rettifiche
arriva alla confezione definitiva, ovvero al farmaco giusto e con il dosaggio
opportunamente rapportato alla gravità della malattia di quella specifica persona.
In medicina non esistono negozi di “prêt-à-porter”……e, se è difficile fare il
“medico”, non è neppure facile fare il “paziente”….

ANTONIO MUSOLINO - NEUROCHIRURGO RADIOLOGO E NEUROFISOPATOLOGO POLICLINICO UNIVERISTARIO DI MESSINA

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Da “LA RIVIERA”, Domenica 23 marzo 2008