Ammazzati l'onorevole ovvero storia romanzata e propaganda su un omicidio Ho comprato e letto il libro del giornalista Enrico Fierro sull’omicidio Fortugno, fort.jpgnon perché mi aspettassi illuminanti considerazioni su Locri, sulla mafia o sull'assassinio del primario, ma per ritrovarvi il testo di dichiarazioni ufficiali, la trascrizione di atti di indagine e di provvedimenti giudiziari, gl’interventi di politici, appresi spesso con un certo fastidio attraverso  giornali e televisioni e prontamente rimossi. Sapevo, come tutti, che scrivere una sorta di instant book richiede: - un sapiente uso della lingua e degli espedienti retorici, senza i quali si producono solo mattoni indigeribili; - una sicura padronanza della tecnica di taglio e cucito con il computer, che consente di accumulare pagine su pagine senza grossi sforzi. E' ovvio che questo non basta e che sono necessari molti altri ingredienti, primo fra tutti la fede assoluta, vera o finta, sui risultati raggiunti dagli analisti che ormai in Italia abbondano, anche dopo che per legge si è affidato il compito di studiare la criminalità organizzata alla DNA, alla DIA e ai Servizi di sicurezza, persino essi incaricati di combattere il fenomeno, e da quando una folla di soggetti è entrata nel novero degli esperti, frequentemente intervistati e sempre pronti a trinciare giudizi. Non è certamente colpa dei singoli, è solo una ineluttabile questione di costume o, talvolta, di malcostume. Cito quale esempio dell’applicazione del principio “chi non sa far stupir vada alla striglia” applicato all’analisi criminologica e sociologica, un passo della prefazione al libro “ ‘Ndrangheta eversiva” di Arcangelo Badolati, scritta dal più noto (a me almeno) Peter Gomez: Insomma si fa largo con prepotenza un quadro storico quasi sconosciuto che spiega bene perché questo secolo sia ormai divenuto il secolo della criminalità organizzata calabrese e perché le statistiche ci raccontino come in regione il rapporto tra affiliati ai clan e la popolazione sia oggi pari al 27%, contro il 12 della Campania, il 10 della Sicilia e il 2 della Puglia.Accettando senza riserve, data l’autorevolezza della fonte, questa verità storica (ma anche profetica, dato che siamo appena all’inizio del secolo) su una popolazione residente di 1.952.093 abitanti, di cui 949.841 maschi e 1.002.252 femmine (numeri riferiti ad una data certa di questo secolo), compresi infanti, bambini, impuberi, incapaci d’intendere e di volere, folli, vittime della mafia, ammalati del morbo di Parkinson, intellettuali di sinistra, santi, poeti e navigatori, deduciamo che gli affiliati sono complessivamente 527.065, di cui 256.457 maschi e 270.608 femmine. Se per avventura riteniamo, secondo una vecchia tradizione, che le donne d’onore facciano parte di una categoria quasi inesistente e annoveriamo solo i maschi tra gli affiliati, scopriremo che il circa il 54% di essi appartiene alla ‘ndrangheta. C’è il rischio, però, di dover ammettere che una parte di essi ha votato per i partiti del rinnovamento, il rinnovamento che rappresenta, sembra anche secondo Fierro, la causa prima dell’omicidio del primario.Senza sforzarsi di suddividere i dati demografici per classi di età, di professione, di appartenenza politica, il lettore che normalmente fa nel suo paese un passeggiata a piedi, consideri mafiosa una persona su quattro di quelle che incontra, escludendo quelle che a suo parere non lo sono certamente (la vecchia zia beghina, la compagna di asilo di sua figlia, la mendicante extracomunitaria che staziona davanti al supermercato, il bracciante indiano, il mistico, il suddiacono orante, il poeta omosessuale progressista, tanto per fare alcuni esempi dedotti dall’esperimento che ho fatto personalmente), e saprà già dopo qualche ora chi al suo paese è membro dell’organizzazione criminale più potente del mondo. Lo sperimentatore è avvertito che, se prolunga il gioco, può essere costretto, perché si adempiano le parole dei profeti e quadrino i conti, ad includere tra i mafiosi se stesso, la moglie, la madre e la bambina lattante.Se scopre poi di appartenere de iure alla ‘ndrangheta gli consigliamo di pretendere la sua parte sapendo che (pag. 44 di Ammazzati l’onorevole), secondo dati Eurispes la mafia calabrese – nonostante la leadership nel traffico della droga con un giro d’affari di 22.340 milioni di euro, il primato nella gestione della prostituzione con un fatturato che supera i 2000 milioni di euro, guadagni nel traffico di armi intorno ai 2 milioni di euro stimati per il 2004 – per lo Stato italiano risulta poverissima. Non si facciano fregare dunque gli affiliati dai dirigenti, che sostengono di aver subito sequestri di capitali e, fatti calcoli semplicissimi, verifichino che a ciascuno spettano tendenzialmente € 46.184 all’anno. Considerino, però, che i dirigenti della Divisione lenoni, magnaccia e ruffiani sul fatturato di 2000 milioni di euro devono pagare pure l’Iva e che la pressione sindacale nel settore va costantemente aumentando. Naturalmente, per celia, abbiamo sommato quantità disomogenee, ma procedere a un’operazione del genere in modo serio potrebbe farci individuare qualche assurda enormità. Un magistrato, tale A.C. (pagg. 44 e ss. ibidem) sostiene ancora che “la ‘ndrangheta la cocaina la produce direttamente, con prezzi che oscillano tra i 1500 e i 1800 dollari al chilo. Ma c’è di più visto che la Colombia è al centro delle attenzioni investigative (in un paese in cui i ribelli ingaggiano battaglie con l’esercito, capirai che paura!) , la produzione si è spostata in Perù a 1300 dollari al chilo, praticamente nulla, con margini di guadagno straordinari. In accordo non soltanto con i narcotrafficanti, ma anche con i terroristi colombiani. I proventi di tale attività sono incalcolabili. I boss che la gestiscono hanno acquisito ricchezze enormi e c’è il rischio (sic!) che tra qualche anno dismettano il traffico di droga per dedicarsi all’amministrazione degli enormi patrimoni che hanno accumulato. Alla fine subappalteranno tutto e si dedicheranno a gestire i loro capitali”. Non voglio mettere in dubbio nessuna parte di questa illuminante dichiarazione. Ritengo, tuttavia, d’accordo che l’analisi, quella imposta dalle leggi, non può essere fiducia cieca in ciò che ha detto un confidente o un cosiddetto collaboratore di giustizia oppure puro esercizio speculativo o semplice estrapolazione di dati o addirittura espansione generalizzante di dati parziali emersi in un singolo caso giudiziario. Essa, al contrario, o deve essere idonea ad individuare le linee strategiche dell’attività preventiva o repressiva, che spetta alla polizia, o a tracciare la programmazione delle indagini nel singolo caso, che può spettare al pubblico ministero. Insomma deve servire a qualcosa e non a far stupire i gonzi o i furbi che fingono di crederci. Non è qualche cosa da sbandierare ma da mantenere riservata.Pensate un attimo quale vantaggio ci possa dare sapere astrattamente che la ‘ndrangheta produce direttamente la cocaina. Che significa? A quale livello della produzione interviene? Nella scelta e nell’acquisto dei terreni? Nella coltivazione della coca con manodopera propria o pagata direttamente? Nella fase della raffinazione? Quali investimenti sono necessari nell’uno e nell’altro caso? Quanti affiliati devono spostarsi sulla zona di produzione? Quali fenomeni conflittuali può generare questa appropriazione dei mezzi di produzione della droga? Quali problemi fa sorgere lo spostamento delle aree di produzione da uno stato all’altro? Quali sono le aree di destinazione del prodotto finito oltre l’Italia? Se queste domande non consentono di formulare ipotesi precise, anche alternative, e di individuare linee di azione ben determinate, l’analisi è del tutto sterile. Allo stesso modo è inutile inventarsi formule come l’IPM, indice di penetrazione mafiosa citato nel libro, altra trovata di Eurispes, indice che non serve a nulla, almeno ai fini operativi. Questa situazione è frutto dell’improvvisazione all’italiana, metodo che concede all’intelligenza di spaziare, eliminando a priori ostacoli e limiti, e di trasformare la cronaca in storia.Tutti parlano di ‘ndrangheta come se fosse un’organizzazione con una struttura precisa, nella quale siano stati individuati i centri decisionali, i loro poteri, la capacità reale di controllo di oltre mezzo milione di affiliati (secondo Gomez) o di circa 20.000 secondo altri o 10.000 secondo altri ancora, ma poi ci si accorge che, parlandone si fa riferimento a una massa informe di delinquenti, scossa permanentemente da fenomeni conflittuali più fisiologici che patologici. Si parla di locali, si individuano forme di collaborazione di locali diversi, si registrano nel tempo tentativi di confederazione per lo più falliti di locali, si documentano contatti di singoli personaggi con esponenti di Cosa Nostra, ma in realtà non è stata nemmeno immaginata una struttura organizzativa che consenta di gestire il traffico di stupefacenti a livello mondiale, lo sfruttamento della prostituzione, il commercio internazionale all’ingrosso di armi, il controllo della delinquenza locale e l’esazione del pizzo, il pilotaggio delle competizioni elettorali, l’elaborazione di complessi piani strategici. Il piano della discussione si è spostato a livelli di astrattezza tali, che anche un magistrato d’indiscusso valore, V.M., può dire a quattro giorni dall’omicidio Fortugno che (pag 68 ss., ibidem) il suo punto di vista è che l’omicidio sia molto più strategico che tattico, molto meno legato a vicende contingenti e molto di più invece carico di significati generali… che sia un delitto di sistema che forse segna l’accelerazione di una strategia nuova… delitto di sistema nel senso che la ‘ndrangheta si attrezza per tre importanti vigilie… le elezioni politiche nazionali… la nuova legge elettorale… il ponte sullo Stretto… l’omicidio è il segnale che loro vogliono essere in modo diretto presenti.. che non tollerano che siano altri a decidere e soprattutto non tollerano che si possa decidere prescindendo da loro e dai loro interessi…Chi sarebbero loro? E come pensano, sacrificando un medico di non eccezionale potere politico, di far capire ai politici nazionali e soprattutto a chi detiene il potere reale le loro intenzioni? Cosa potrebbe rappresentare l’equivalente di una chiara rivendicazione? E tutto queste parlare di criminalità organizzata con pareri espressi a tutti i livelli non può determinare e favorire il mascheramento di interessi precisi e concreti e la simulazione di interessi strategici? Quando si continua a sopravvalutare la forza e la potenza economica di un organizzazione, non si finisce per creare a priori un obiettivo d’imputazione di ogni azione illegale e per ingenerare nei cittadini una forma di panico immotivato? Perché non si può e non si vuole riconoscere che per eseguire un omicidio nel modo in cui è stato eseguito l’omicidio Fortugno basta un disperato e che se qualcuno dei presenti avesse avuto un minimo di aggressività (questione di adrenalina!) l’assassino sarebbe stato acciuffato sul posto e non avrebbe avuto scampo? Che se fosse stata presente una suorina piena di fede, gli avrebbe fatto fare la fine del turco che tentò di uccidere Papa Wojtila?Quali sarebbero state le elucubrazioni se il responsabile del tentato omicidio Principe, politico certamente più noto del dottor Fortugno, non fosse stato catturato in flagranza? Non ho soluzioni e non ho ricette. Ho cercato nelle librerie, nelle biblioteche, persino su Internet qualche testo in italiano sull’analisi dei fenomeni criminali, come scienza applicata alle indagini Non l’ho trovato, certamente per mia incapacità, ma il sospetto che, in materia di analisi, vige il massimo arbitrio, si è confermato nella mia mente e, tra l’altro, si è rafforzato il mio vecchio pregiudizio che senza un’ottima teoria la pratica non può che essere mediocre. Rinviando la trattazione dei dubbi relativi all’omicidio consideriamo per un attimo un’altra serie di attrezzi necessari per scrivere un libro come quello di Enrico Fierro: i filtri colorati e i limitatori di visione spaziali e temporali.In pratica, arrivati a pagina 122 del libro, veniamo alla tanto decantata (e ufficialmente segretata per motivi ignoti al grande pubblico) relazione prefettizia di accesso all’ospedale di Locri, frutto di cinque mesi di lavoro, riguardo alla quale Fierro scrive: E allora vale la pena armarsi di pazienza e leggere le 180 pagine stilate dai prefetti per capire cos’è la mafia, cosa intendono sociologi e studiosi del fenomeno quando parlano della sua capacità di penetrare nel tessuto istituzionale e di trasformarsi in impresa, di diventare mafia imprenditrice, che chiede e produce consenso per le sue “opere”. Sì, quelle pagine valgono più di mille trattati per capire cosa accadeva a Locri. Guardo in calce, ma non trovo la nota “Messaggio promozionale”. E’ una cosa che mi succede spesso durante la lettura del libro, specialmente quando si parla di politica, e mi chiedo perché la scritta debba apparire sullo schermo televisivo e non sulla carta stampata. Mi scuso per i miei dubbi cretini. Tre domande sorgono spontanee, ma vanno lette fino in fondo per capirne lo spirito: - il dottor Fortugno, esperto di problemi sanitari della sua regione, responsabile del settore per il suo partito, la Margherita, il quale aveva capito che la Sanità era uno dei punti nevralgici (pag. 117), non lavorava in quello stesso ospedale, che il Fierro definisce verminaio e Mafia Hospital (pag. 121)? E la signora Fortugno non aveva un incarico di responsabilità in seno allo stesso verminaio? Nel dire questo penso anche a tantissime persone per bene, medici e infermieri, amici e compagni di scuola, che lavorano nello stesso ospedale e mi chiedo come si sentano e se pensano di dover essere più guardinghi di fronte al presunto strapotere della mafia, tanto sbandierato e strombazzato;- una volta messo alla luce il verminaio, che non si era formato per generazione spontanea negli ultimi cinque anni, perché non abbiamo assistito agli effetti di vermifughi, elmintagoghi e antielmintici in questi due ultimi anni e a fatti concreti come l’annullamento di convenzioni illegittimamente stipulate, il licenziamento di dipendenti imposti dalla ‘ndrangheta, l’incriminazione di funzionari corrotti e collusi, tenendo conto del fatto che le indagini preliminari dovrebbero essere concluse in sei mesi?- perché quelli che immediatamente appaiono eventualmente come episodi di normale corruzione, di normale insipienza amministrativa, di normale inefficienza delle strutture, di normale adattamento a una situazione locale in cui il lavoro è non un diritto ma un bene conteso, di totale inidoneità degli organi di controllo che ufficialmente abbondano, di prassi amministrativa mal concepita e peggio applicata, diventano espressioni di mafia imprenditrice e di malgoverno dei cinque anni precedenti? Se ogni cosa fosse stata così come viene scandalosamente presentata, in due anni nella Locride doveva succedere il terremoto, e, se il terremoto non fosse successo, la Commissione Nazionale Antimafia (supposto che non serva solo alla produzione di retorica e chiacchiericcio) avrebbe dovuto promuovere una carneficina in molti settori della pubblica amministrazione. Non so se i brani della relazione sono fedelmente riportati dal Fierro, ma se hanno il tenore che emerge dal libro, mi sembra che l’esposizione dei dati non sia caratterizzata dal massimo della correttezza, proprio nel senso che essi sono esposti male ed in modo non conforme alla legge sulla cosiddetta privacy, che prescrive che essi comunque debbano essere esatti e se necessario aggiornati. Absit iniuria verbis: certamente la relazione prefettizia raggiunge i massimi livelli in un sistema come quello attuale, ma è il sistema che non funziona, il sistema che da una parte permette di imporre il segreto su una relazione che ha già toccato diritti fondamentali e interessi legittimi di circa 2000 e forse più cittadini, dall’altra permette la pubblicazione di brani scelti per dimostrare tesi precise. Non so chi sia il dottor D. T., il dentista di Gioiosa, riguardo al quale si lamenta “la sostanziale inerzia della ASL che in seguito alla sentenza non ha mai verificato la sussistenza dei requisiti morali per il proseguimento del rapporto con il laboratorio, che pertanto ha continuato a erogare prestazioni retribuite peraltro con importi ben superiori a quelli consentiti”. Sul merito non posso dire niente, ma certamente riportare un arresto del 23 gennaio 1993 per associazione di tipo mafioso, estorsione ed usura, parlando di coinvolgimento della famiglia mafiosa degli Aquino e far dedurre solo indirettamente attraverso una sentenza di condanna per usura – pena sospesa – dell’8.10.1996 che probabilmente in qualche modo è caduta la denuncia per mafia non rispetta l’obbligo di esattezza dei dati.E’opportuno – sosterrebbero i commissari – in estrema sintesi segnalare, a conferma di un preoccupante quadro indiziario, il perdurare, da parte del T., alla data dell’ottobre 2005, delle frequentazioni con la criminalità organizzata”. Quale sarebbe il preoccupante quadro indiziario? E alle perduranti frequentazioni con la criminalità organizzata si deve credere per fede, anche quando concretamente non si parla di personaggi precisi e di fatti ben definiti?Non dispongo degli atti originali, ma mi chiedo (pag. 124 e pag. 125) perché si citino i due provvedimenti di sequestro del Pio Center di Bovalino, senza precisare che non è mai intervenuto alcun provvedimento di confisca, e il contratto stipulato dalla ASL fin dal 1984 con Giorgi Antonia, senza mai chiedersi che fine abbiano fatto le indagini patrimoniali su Nirta Antonio e se questi sia stato dal 1984 denunciato per associazione mafiosa o sottoposto a procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione per mafia. Analoghe considerazioni valgono pure per il Centro di ricerche cardiovascolari D.A. Cooley (pag. 127), per il quale si fa riferimento alle pagine memorabili di Mario Puzo e si ricorda quello che pensano i giudici (quali e quando e a quale proposito?) sulla cosca Romeo-Pelle, ma non si dice che fine ha fatto un provvedimento di sequestro adottato nel 1999. Quando poi si parla di cooperative il fumo è ancora più intenso: si fa riferimento agl’incassi miliardari negli ultimi cinque anni, senza mai chiedersi se siano stati legittimi e se corrispondano a prestazioni effettuate, senza specificare quanti siano i soci e senza chiarire a quando risalgano i rapporti con la ASL 9 (parlo naturalmente del libro e non della relazione Basilone, della quale non dispongo). A prescindere dagl’incassi, non mi sembra che si possa affermare a cuor leggero che esse contribuiscono all’ingresso della mafia nel cuore della sanità locrese, quando per la COSSEA di Gioiosa si cita un dirigente denunciato per associazione per delinquere e per riciclaggio e un altro per furto e truffa, quando per l’ARPAH si sostiene solo che il vicepresidente incensurato è stato fermato nel 2002 in compagnia di un esponente del clan Ruga-Gullace o ancora quando per l’Associazione mutua benevolentia si afferma che il direttore sanitario venne denunciato nel 1995 per reati contro la pubblica amministrazione (è stato rinviato a giudizio? è stato condannato?) e il fratello (la responsabilità penale non è più personale?) ha a carico diversi precedenti di polizia (significa che non ha mai subito procedimenti penali?). Insomma dove sta la mafia? E se invece di evocare i soliti mostri badassimo alla legittimità e all’opportunità delle spese e non solo in Calabria, parlando di cose concrete? E se si trattasse di fenomeni simili a quelli che in Lombardia guadagnarono all’Italia l’appellativo di Paese delle tangenti o Tangentopoli? Sarebbe uno dei casi eclatanti dello sforamento dei tetti di spesa operati dalle struttureconvenzionate quello del laboratorio di analisi “Fiscer”, che a fronte di un tetto di spesa autorizzato di 10.131.780 per il quinquennio 2001-2005, e’ stato destinatario di pagamenti ammontanti a 31.544.414. Una lievitazione straordinaria – si legge nel libro – per una società privata il cui direttore sanitario ha una fedina penale di tutto rispetto: favoreggiamento, ricettazione, falso in genere.Quando parlavo di limitatori di visione all’inizio di questa parte del mio discorso, mi riferivo proprio al fatto che si vanno a cercare le cause in fatti del tutto inconsistenti, per giustificare l’addebito di ogni male alla criminalità organizzata. In quest’ultimo caso che rilevanza ha la fedina penale del direttore sanitario, che in linea di principio non dovrebbe interessarsi di amministrazione e contabilità e che non si capisce se ha subito condanne e per quale fatto? Qual è il rapporto con la mafia di questo laboratorio, che, a quanto sento, in zona è il più attrezzato? E dato che si verifica lo sforamento sistematico dei tetti di spesa, quali strumenti ha approntato l’Assessorato regionale per il controllo del passivo in accumulo? E se si trattasse semplicemente di cattiva programmazione e di previsione incongrua delle spese? Intendiamoci bene. Io non sostengo che la criminalità organizzata non esiste, dico solo che occorre chiamare peculato il peculato, corruzione la corruzione, disorganizzazione amministrativa la disorganizzazione amministrativa e pessima disciplina giuridica la pessima disciplina giuridica. Altrimenti continueremo a parlare dei soliti noti per altri cinque lustri, quanti ne sono trascorsi dall’entrata in vigore della legge antimafia od altri otto, quanti ne sono trascorsi da quando il parlamento ha deciso di istituire la commissione d’inchiesta che sembra destinata a durare in eterno. E finalmente si parla di soggetti vicini ai mafiosi ufficialmente riconosciuti, quando la commissione “denuncia il caso del maxi-appalto per la pulizia degli ospedali di Siderno e di Locri, un affare che la Coop Service si aggiudica per 1.313.000 euro, superiore a quello fissato a base d’asta. Sull’affidamento di tale servizio, non solo colpisce l’anomalia della procedura, ma in modo solo apparentemente singolare la circostanza che la Coop Service è interessata da importanti e rilevanti accertamenti di polizia giudiziaria. Prosegue il Fierro: Su 154 soci 12 hanno precedenti penali di varia natura. Su 85 di questi residenti a Locri per lo più donne ben 23 sono legati da vincolo di parentela diretto, perché figli o addirittura coniugi, con appartenenti di primo piano alle organizzazioni mafiose locali. Il boss Nicola Cataldo ha piazzato nella cooperativa la figlia, la nuora, la nipote, non trascurando, ovviamente, i parenti stretti dei suoi picciotti, La moglie e la figlia di Totò Cavallo, ad esempio…Il prefetto Basilone si mette le mani nei capelli quando i suoi funzionari le portano le schede della figlia di Giuseppe Morabito, u tiradrittu, del genero o poi quella del nipote di don Stilo- il prete di Africo accusato di essere troppo amico degli amici e del figlio di Nirta: tutti medici assunti, e con tanto di tappeto rosso, in quell’ospedale. Per quanto riguarda la cooperativa forse bisognerebbe scendere dall’empireo e vedere ormai, a distanza di due anni, quale è stato il risultato degli “importanti e rilevanti accertamenti di polizia giudiziaria”, quale è il ruolo ufficiale e la posizione reale di coniugi e congiunti dei mafiosi in seno alla cooperativa, chi sono gli amministratori, come si è potuto concretare lo strapotere mafioso attraverso le donne delle pulizie, se davvero l’importo per il quale la società si è aggiudicata l’appalto è esageratamente alto oppure addirittura inferiore a quello medio italiano. Insomma il fatto puro e semplice di lavorare in un’impresa di pulizie non può essere considerato un attentato alla sicurezza e all’ordine pubblico. Se per passare lo straccio bisogna essere incensurati, mi chiedo che cosa significhi che la Repubblica è fondata sul lavoro. Non escludo che possano sussistere illeciti, ma essi vanno accertati e non solo paventati. Se si rispetta il principio della responsabilità personale e della personale dignità di ogni cittadino non si può nemmeno escludere che anche mogli e figlie di mafiosi e presunti tali possano vivere con disagio e paura la loro vita e la loro posizione. Ad esempio mi sconcertano certi tentativi insistenti e petulanti di interviste fatti dopo l’arresto dei mariti e figli da coraggiosi (si fa per dire) cronisti… Se poi si uscisse fuori dalla metafora del tappeto rosso, sarebbe opportuno sapere come siano stati favoriti i medici congiunti dei presunti mafiosi (Don Stilo è stato condannato con sentenza passata in giudicato per associazione di tipo mafioso?), nel senso di verificare se anche altri medici, non imparentati con mafiosi, abbiano goduto di trattamenti analoghi. Sarebbe anche interessante studiare il caso di Pasquale Morabito, psicologo, e chiedersi se l’Amministrazione potesse prorogare oltre il quinto anno la sospensione dal servizio, se non fosse intervenuto il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna. Il libro del Fierro non consente di farsi un’idea esatta della situazione. Probabilmente se a queste domande fosse stata data a tempo debito una risposta, il prefetto Basilone (per seguire la metafora del Fierro) non sarebbe stata costretto ad andare dal parrucchiere subito dopo la visione delle schede. Mi chiedo anche se certi personaggi che si sono prodigati in lodi sperticate della relazione abbiano letto solo qualche recensione giornalistica, più o meno come i laudatores della Recherche di Proust. Ma questa è solo una battuta stupida, che potevo risparmiarmi. E veniamo ora all’omicidio. Il capitolo “Cazzu com’u sparau” è la descrizione colorita, anzi in alcuni tratti la sceneggiatura delle indagini, pagine che si leggono tutte d’un fiato, perchè scritte con grande maestria, ma che, se riflettessero fedelmente la realtà dovrebbero farci seriamente preoccupare. Ci raccontava un vecchio poliziotto, simpaticissimo zio di una compagna di scuola ormai morto da anni, che tutta la dottrina investigativa ai suoi tempi si poteva concentrare in due parole: soffiata e mazziata, anche se spesso i procuratori non si lasciavano convincere dalle confessioni degli accusati e i giudici istruttori ancora di meno.Oggi purtroppo (per il vecchio poliziotto), come mi ha spiegato un amico avvocato, c’è un articolo di legge che vieta di usare mezzi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti.Scrive il Fierro, parlando di Bruno Piccolo, il barista congedato per depressione durante il servizio di leva: Lo arrestano insieme al suo compare Antonio Dessì e a Domenico Novella, il 14 novembre 2005. Un mese dopo l’omicidio del dottor Fortugno. Lo spostano prima al carcere di Reggio Calabria, poi nel supercarcere di Sulmona: una struttura nuova, moderna, le mura sono alte, le celle comode, ma qui la gente si ammazza. Un altissimo tasso di suicidi. Qui si è ucciso un sindaco finito in manette per una storia di tangenti. Lo hanno trovato in cella soffocato con buste di plastica e stringhe delle scarpe. E Bruno è sempre al “41” come lo chiamano i mafiosi. Pochi colloqui, luce sempre accesa nella cella, conversazioni e posta intercettate… Soprattutto non si può attendere rispetto da nessuno, neppure dall’ultimo marocchino in galera per un pezzo di fumo. Bastano sguardo, una parola, uno scatto di nervosismo, per rimetterci la pelle… Ora Bruno Piccolo è solo un uomo distrutto…Insomma un giornalista progressista, basandosi su ignote fonti, scrive tranquillamente che la confessione di Piccolo è stata determinata dall’uso improprio di un mezzo destinato alla prevenzione e descrive un carcere della Repubblica come un luogo di tortura con mezzi raffinati, che non sono né gli schiaffi di un poliziotto né elettroshock né altre forme di violenza fisica, ma possono indurre e di fatto inducono al suicidio. Possibile che nessuno si scandalizzi nemmeno un po’, come nessuno dei medici di Locri si è scandalizzato del fatto che di lui si dica che lavora in un ospedale di mafiosi e non si è ribellato con tutti i mezzi che gli offre l’ordinamento democratico? Non vi sembra che queste sono prove di un deficit di convinzione democratica e di sfiducia nelle istituzioni ovvero di uno stato di assoggettamento del cittadino medio a una forma di misterioso strapotere?Non vi sembra naturale la preoccupazione delle congiunte degli arrestati (pag. 164), che dicono “S’ammazzano, s’impiccano, perchè quelli non sono abituati” ? E i consigli che danno i parenti di Bruno Piccolo, intercettati e riportati nel libro (pagg. 164 e 165), non vi sembrano naturali, quando è intuibile che il giovane, che ha già tentato il suicidio, può “uscire di testa”? Chiedetevi se una madre non mafiosa non nutrirebbe, nelle stesse circostanze, ansia e preoccupazione per un figlio che considera debole. Taccio, per carità di patria, sul passo in cui il pubblico ministero chiede a Piccolo (pag.167) : -Piccolo ma con questi avete fatto molto schiticchi? -, dato che fuori dal contesto può apparire una domanda oziosa (e invece ci sarà stato qualche motivo per farla), ma subito dopo non posso non considerare azzardata l’ipotesi (formulata sulla base di un’intercettazione) che la persona incontrata il 17 settembre a Brancaleone da Novella & C. potesse essere il dottor Fortugno, dato che si capisce (anche se la traduzione dal dialetto sembra non perfetta) che si trattava di un delinquente rivale, che viaggiava in macchina portandosi dietro un bazooka. Anche se il giornalista privilegia l’aspetto umano e psicologico e non quello giudiziario, io credo che non possano e non debbano essere pubblicati brani considerati significativi prima del processo (intercettazioni in carcere di congiunti, passi d’interrogatorio ecc.) dal momento che chi li legge (e potrebbero essere anche i giudici non togati persone senz’altro per bene, ma al limite suggestionabili come chiunque esercita un’attività che non gli è familiare) potrebbe farsi un’opinione distorta dei fatti. Un lettore disattento potrebbe chiedersi, nonostante il parere del perito riportato nel libro sulle sue capacità cognitive e intellettive del pentito, come mai Piccolo abbia indicato Audino come compagno di Ritorto nella fase di consumazione dell’omicidio e perché mai Ritorto dovesse farsi accompagnare in macchina da uno dei Dessì dal bar Piccolo fino a Piazza Tribunali (250 metri circa) con giubbotto, cappuccio e cappello nella calura settembrina, per poi seguire a piedi il dottor Fortugno, che come ogni cittadino medio presumibilmente si muoveva in macchina ed ancora perché abbia raccontato la storia del movente fasullo (la scoperta da parte del dottor Fortugno che era stato Ritorto a tentare un’estorsione nei suoi confronti e la minaccia conseguente di denunciarlo presentando una cassetta con le prove registrate), prima di esprimere i suoi pareri sull’ipotizzato movente politico dell’omicidio.Non vado oltre, perché non voglio cadere nel trabocchetto nel quale può precipitare chi non conosce tutti gli atti e dovrebbe avere il buon senso di stare zitto. Non riesco a dimenticare, però, che il Fierro descrive anche il pentimento di Domenico Novella (il leader del gruppo di fuoco, la persona disposta in ogni momento ad uccidere e a subire rappresaglie a colpi di kalashnikov e bazooka) come conseguenza del regime previsto dall’art. 41 e a pag. 196 scrive: “Micu Novella ha il cuore a mille. Gli hanno fatto sentire le intercettazioni. Ha letto le dichiarazioni di Bruno il barista…”Sulla base di quale principio giuridico gli sarebbe stato consentito di leggere le dichiarazioni di Piccolo? Certamente non può essere vero, perché l’unico strumento legittimo od opportuno sarebbe stato il confronto tra i due, se non si fosse voluto rischiare di far temere che il secondo collaboratore adattasse le sue dichiarazioni a quelle del primo, sulla cui affidabilità già potevano esserci seri dubbi.Chiosare compiutamente le 300 pagine del libro del Fierro imporrebbe di scrivere altrettante pagine. Certo c’è un demone che offusca la mente, ma è difficile capire se quello subito da Marcianò, con la trombatura del candidato da lui sostenuto, sia stato un danno emergente o un lucro cessante, se Marcianò figlio sia stato licenziato dalla segreteria del dottor Crea o non sia stato assunto o perché non sia stato assunto dopo la morte del dottor Fortugno. E’ difficile anche capire perché Marcianò padre risponda in carcere del delitto, quando ha dimostrato di non avere intenzione di scappare, avrebbe avuto già tutto il tempo di inquinare le prove e non dovrebbe uccidere altri eletti. Mistero per chi non conosce gli atti!!! Certo è che, se la prova della colpevolezza dei Marcianò risiede esclusivamente nelle dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia, essa sembra abbastanza labile, specialmente nel caso in cui se fosse realistica la ricostruzione fatta dal Fierro sulla genesi e lo sviluppo della attività di collaborazione di Piccolo e Novella con gl’inquirenti. Ci sarebbe da concludere con sollievo:- Grazie a Dio, non ci sono più i mafiosi di una volta e nemmeno personaggi come quello della canzone milanese che prende botte quaranta dì e quaranta notti a San Vittur , ma non parla!-Un fatto è certo: se per avventura il primario di Locri fosse stato ucciso solo per uno sfogo di odio covato da tempo da Marcianò dipendente dalla dottoressa Laganà, le decine di persone che hanno fatto cavalcare a briglia sciolta la loro fantasia sulle strategie della ‘ndrangheta, ora dovrebbero andare a piedi a Canossa. Io, certamente, non posso essere definita una esperta di diritto (sono solo una che ha deciso di avere dubbi), ma dopo aver parlato con persone che considero attenti lettori, penso come loro che il permesso del capo mafia di commettere reati nel territorio sia ormai un reperto di archeologia mafiosa, risalente a quando ancora la Cassazione sentenziava che essere mafiosi di per sé non è reato, i mafiosi salivano sul palco insieme ai politici e forza e prestigio andavano di pari passo. E comunque non può essere considerato da un giornalista un fatto notorio come la forza di gravità o la bassa temperatura del ghiaccio. E’ un fatto che deve essere provato e se fosse vero, mi piacerebbe immaginare il mandante Marcianò che fa istanza al Domineddio della “Ndrangheta” (il livello superiore a suo compare Cordì, presente in Lombardia secondo l’ipotesi fatta nel libro) per ottenere di uccidere il medico allo scopo di far salire alla Regione suo compare Mimmo Crea. L’unica cosa che penso è che, se si continuerà in Calabria a tentare di spiegare tutto a botte di aforismi sulla ‘ndrangheta, il numero dei reati addebitati ad ignoti resterà sempre alto. Non parlo del dottor Fortugno, che ho visto solo sui manifesti di propaganda elettorale, ma se penso al fascino di certi miei amici medici e a come sapientemente e con successo lo esercitano, prima di tutto sarei andata a cercare il responsabile tra i mariti gelosi, categoria peraltro in rapida estinzione. Questa è solo una battuta, ma vuole esprimere la necessità di individuare moventi concreti e interessi palpabili. Si può anche uccidere per un presunto torto o per un insulto, ma non per caso, perché si viene estratti a sorte da una rosa di politici che stanno attuando il rinnovamento, dopo 5 anni di disastrosa amministrazione di destra. Il rinnovamento, poi, è sotto gli occhi di tutti… A chi fa propaganda politica approfittando dell’assassinio di una persona, una persona universalmente riconosciuta come un brava persona, spetta un epiteto preciso che ora mi sfugge. Mi aiutino i lettori, consultando, se hanno vuoti di memoria come me, un vocabolario italiano. Vediamo cosa emerge dal procedimento in Corte d’Assise. Ad occhio e croce mi pare di poter dire, solo per esercitare il mio diritto alla libertà di opinione e di eventuale errore come hanno fatto altri più saggi di me e altri più sciocchi, che la forza e nello stesso tempo la debolezza dell’impianto accusatorio sta proprio nella circostanza che i personaggi coinvolti si trovavano sottoposti ad attività investigative, dirette o indirette, nello stesso periodo in cui si preparava e poi si consumava l’omicidio del dottore. Et de hoc satis. Come direbbe Garcia Lorca: la luz del intendimiento me hace ser muy comedido (a)… Ludy Milla