pallade-atenaUn Inno allo studio del greco e del latino. Lingue vive che insegnano a ragionare.  Dalla nostra studentessa universitaria a Milano Laura Schito una prosa d'amore.  E una critica. "...  Perché fingere di voler far crescere la scuola italiana, ottimizzare e incanalare meglio i fondi, senza curarsi minimamente dell’impoverimento di una cultura che risulta già terribilmente al di sotto del livello medio europeo? Quanto sarebbe facile e comodo governare su di un gregge, su di un popolo di uomini ignoranti, ignari delle proprie radici, allo sbando nel proprio presente e con troppi “se” per il proprio avvenire?... "

Parafrasando una citazione del libro Memorie di Adriano, monumento
letterario nato dalla penna di Marguerite Yourcenar, asserisco e
ribadisco che quanto di più importante sia stato pensato e detto
dall’uomo è stato pensato e detto in greco, congetturato e teorizzato
dall’ἄντρωπος.
A chi persiste a chiedermi l’inconcepibile ragione per cui sia stata
così folle da condannarmi allo studio del greco e del latino- lingue
morte, tuonerebbe qualcuno- e a chi mi reputa una velleitaria, una col
posto già assicurato, sì, ma nell’interminabile lista dei futuri
disoccupati, mi piace asserire e ribadire che quell’inconcepibile
ragione, così latente nel grigiore quotidiano, risiede nel bianco
delle mie certezze, un tempo macchiato dal nero delle sentenze altrui,
oggi più candido che mai; una ragione oramai radicata nel mio mondo:
un pianeta che, forse, ruota nel verso opposto a quello astronomico o
che, magari, preferisce girare intorno all’asse delle mie aspirazioni,
quasi dimenticandosi di quello terrestre.
Malgrado l’imperante scetticismo che aleggia intorno a scelte come la mia, non mi reputo
l’inseguitrice di una chimera, il don Chisciotte dei nostri mala
tempora o, per meglio rendere l’idea, l’inetto sveviano, cullato da
vaghe quanto vacue aspirazioni letterarie. E’ questa una passione che
non intendo lasciar fermentare quale substrato della vita, sotto una
superficie di amarezza e insoddisfazione: vorrei che essa potesse
erompere ed incendiare tutt’intorno. Di mio ci metto quanto possibile,
per il resto, Virgilio docet: audaces fortuna adiuvat.

A coloro che storcono il naso dinanzi alla riconosciuta importanza
delle lingue classiche, a quanti reputano una perdita di tempo
soffermarsi a riflettere e a tradurre una versione in greco antico, a
destreggiarsi nel dedalo di aoristi e perfetti, mi piace asserire e
ribadire che le tanto criticate lingue morte sono i nostri più vecchi
avi, con il merito di porsi direttamente agli albori della civitas,
come la definivano gli antichi e gloriosi romani. Forse sembrerebbe
poco rilevante ricordare che le prime città (πόλεις) sorsero proprio
nella Grecia dell’VIII- VII secolo a. C: eppure è questa la verità e,
se gli ellenici non avessero dato luogo a tale forma di organizzazione
sociale e civile, probabilmente ora non saremmo neppure cittadini,
bensì membri di tribù, brancolanti nel buio dell’anarchia; oggigiorno,
nel perbenismo innalzato a regola aurea, tutti inorridiamo dinanzi
alle ormai frequentissime notizie di omicidi, ma dubito che in egual
numero si sappia che il primo a condannare le uccisioni tra uomini sia
stato Dracone e che Dracone- è un dovere dirlo- fu un greco. E ancora,
per restare nell’ambito giuridico, si fa presto a far spallucce di
fronte agli amanti del greco e del latino e, intanto, a scendere in
piazza muniti di striscioni e megafoni per rivendicare libertà e una
lunga lista di diritti, ma in pochi sanno che la prima costituzione
democratica del mondo antico fu proprio in lingua greca e ad opera di
Clistene.

Ad ogni uomo in grado di pensare e partorire delle idee, a quello che
Aristotele definì animale razionale, bisogna pur ricordare che il
pensiero è greco, figlio di celeberrimi filosofi greci (non mi dilungo
ad elencare i più importanti, ma cito i tre universalmente noti:
Socrate, Platone e Aristotele); e a tutti quei genitori ardentemente
desiderosi che i propri figli diventino acclamati medici, un domani,
con addosso un camice bianco, quando in realtà essi sognerebbero di
avere in mano un dizionario e una comune biro- magari un dizionario di
greco- vorrei far presente che anche la medicina nacque nell’Ellade,
nell’isola di Cos, e che il padre fondatore fu Ippocrate… Inutile
ribadirlo, anche lui un greco.

E se qualcuno, un folle, non si fosse preso la briga di studiare
quell’incomprensibile lingua dotata di quell’incomprensibile alfabeto
costellato da quegli incomprensibili spiriti e accenti, chissà cosa
sarebbe mutato nel corso della storia, chissà quanta ignoranza sul
nostro passato. Non rilevante ai fini pratici, questo, ma interessante
a pensarci.

Eppure, fra i tanti meriti attribuibili al greco, accingersi ad uno
studio incentrato su di esso appare quanto di più inconcludente e vano
si possa intraprendere ai nostri tempi; come se ambire ad una cattedra
sia … Una cattedrale nel deserto. La ragione (sebbene di ragionevole
ci sia ben poco) di questo sfacelo, la causa della regressione
culturale in atto deve essere necessariamente ricercata nel clima di
allarmante superficialità con cui si assumono discutibili
provvedimenti nel campo dell’istruzione; l’obiettivo dichiarato è
quello di economizzare e migliorare, ma sorgono spontanee delle
domande: quant’è giusto, poi, economizzare sull’istruzione, autentico
pilastro della società? Come si può credere che un edificio così
complesso possa ergersi e reggersi senza adeguate, solide e durature
fondamenta? Perché fingere di voler far crescere la scuola italiana,
ottimizzare e incanalare meglio i fondi, senza curarsi minimamente
dell’impoverimento di una cultura che risulta già terribilmente al di
sotto del livello medio europeo?

Quanto sarebbe facile e comodo
governare su di un gregge, su di un popolo di uomini ignoranti, ignari
delle proprie radici, allo sbando nel proprio presente e con troppi
“se” per il proprio avvenire?

Una cattedra, oh, una cattedra di italiano o di greco o latino, per
quanto mi riguarda: illusoria speranza, fallace progetto
professionale, obiettivo il cui bersaglio si è perso negli anni che
corrono incuranti, obiettivo urlato e vagheggiato dai 230mila precari
che affollano le piazze italiane. Con le voci che si perdono, ma gli
animi, quelli, mai.

Una cattedra: tavolo o scrivania collocato su una pedana, questo
riporta il vocabolario, questo riporterebbero in tanti.
Un sogno, dico io. E i miei desideri, malgrado tutto e tutti, non si
perdono fra le stelle (de-sidera), ma restano ancorati qui, alla terra
ferma. Magari ai piedi di una cattedra.
Insieme al greco e al latino e, ovviamente, ai loro intraducibili costrutti.
Ab aeterno.

di Laura Schito studentessa di greco e latino all'università di Milano.