sarah-scazzi-500px-insertLe frasi melense, ora, non servono a nulla. Dalla conoscenza della notizia sino a poco fa, non un solo rigo sono riuscita a buttar giù, non una sola parola a proferire. Adesso, invece, scrivo, e scrivo duramente. Non serve ricordare i suoi occhi vispi, i suoi capelli biondi da principessa, neppure fantasticare sulle sue ambizioni, i sogni che custodiva sotto il cuscino. Tutto è andato perduto, sprofondato nell’inconsistente, nell’inesistente. La sua vita è annegata, trascinata da un mare in tempesta che non la restituirà più alla sua riva, nemmeno quando e se ritornerà la bonaccia.

Sarah è stata strangolata, crudelmente strangolata. E strangolati sono stati la sua dignità, il suo diritto alla vita, il suo futuro, quel futuro che oggi rimarrà nella libera immaginazione di ognuno che ci voglia pensare. Non me ne vogliano i fedeli, i coraggiosi o gli utopisti- non saprei stabilire- rincorati dalla speranza di una vita successiva, di una vita eterna al cospetto del Creatore, della vera Vita. Ma questa vita, Sarah, ce l’aveva a portata di mano, anzi, era addirittura già sua. Le apparteneva, ne aveva il diritto, poteva e voleva scoprirla, sondarla, gustarla, amarla e odiarla, ma sempre cercarla, al mattino.

E’ dolce e di pseudo- conforto ricordare e convincersi che lei non ha smesso di vivere, perché rimarrà nei nostri cuori, nei cuori di un’Italia intera; tuttavia, i nostri cuori aiutano a vivere, ma non vivono: e lei è lì, custodita, ma forse è troppo tardi per custodire Sarah. Qualcuno, probabilmente, avrebbe dovuto pensarci prima, perché una ragazzina, a quindici anni, deve essere ancora custodita. Perché, a quindici anni, dietro i tacchi, il rossetto e le ambizioni da prematura donna, si celano un’anima per metà bambina, una persona appena entrata, con la sola punta del piede, nel mondo degli adulti, un cuore che vorrebbe battere regolarmente, con la calma e la maturità dei “grandi”, ma che corre all’impazzata e spesso ha paura, un’inconfessabile paura.  Lei è intrappolata nei nostri cuori, senza speranza di uscirne, di rivedere la luce del giorno. Che a Sarah facciano da tetto soffici nuvole, le pareti di una bara o le intangibili mura eteree, questo poco importa. Quel che è vero, quello su cui tutti noi concordiamo è che non è più sotto questo nostro medesimo cielo, sotto quel sole che le ha illuminato il volto chissà quanti pomeriggi d’estate, sino all’ultimo. Quel suo ultimo pomeriggio d’estate.

Basta con le belle frasi convenevoli, basta con le promesse di una vita eterna e con i servizi strappalacrime ai Tg, accompagnati da musichette tristi, strazianti. Il dolore è lancinante, trafigge l’anima e la trapassa, si sente dentro come un pugno; tuttavia, trascorrere i giorni che passano, inesorabili, allontanandoci da Sarah, a versar lacrime e a rincorrere isterici e allucinati ricordi è più inutile che mai. È più umano che mai, ma spesso le cose degli umani sono inutili. E questo ne è un caso evidente.

Amaro, enorme amaro sul palato. Rabbia, incontenibile rabbia, sdegno, senso di- e vogliate scusarmi il termine-, senso di schifo, di lurido. Sarah è stata condannata ad uscire da questo mondo, è stata strappata ad esso e gettata via, ma la rabbia, la sola collera può darle giustizia. E anche se i tempi della faida sono stati superati da un bel pezzo, anche se questo allucinante epilogo bandisce ogni possibilità di rendere giustizia a Sarah, la sola ombra, una vaga ombra di ciò che sarebbe giusto fare consiste nell’applicare contro Michele Misseri quanto di più crudele e feroce il genere homo possa progettare e mettere a punto; la pena capitale non mi sembra adeguata: gli serve la testa per capire quante vite abbia ucciso, insieme a quella di Sarah; neppure la tortura mi sembra sufficiente: per quanto lunga e dolorosa possa configurarsi, per quanto dolore possa provare sulla sua pelle, dopo, sarà tutto finito e i lividi e i segni di una violenza fisica guariscono, prima o poi. La morte, quella, una volta che te la infliggono, non guarisce mai. E non si guarda indietro più.

L’ergastolo sarebbe una punizione più degna delle altre, probabilmente, se solo il periodo del carcere non si trasformasse in un soggiorno-vacanza abbonato dallo Stato italiano per truffatori/omicidi/delinquenti che, tanto, poi, vanno a disputare partitelle di calcio e a giocare con una leggerezza di coscienza che non so capire da dove derivi, che trascorrono le ore a poltrire comodamente davanti alla tv e attendono speranzosi e fiduciosi quella diminuzione della pena che- lo sappiamo in tanti- ci sarà. Secondo un eterodosso calcolo numerico, nella nostra amata Repubblica delle Banane (patria amanda est, mi riecheggia nella mente…), la ormai centocinquantenne Italia, i trent’anni divengono inspiegabilmente tredici e i dieci si dimezzano a cinque. Tutti a ripetizione di matematica, oh italiani.
Ma, adesso, mi rendo conto di divagare. Non inneschiamo una polemica sul nostro Belpaese.
I lavori forzati a Misseri, invece, potrebbero davvero risarcire la comunità come taluni ipotizzano? Beh, sempre meglio di vederlo vegetare in un carcere a cinque stelle. Made in Italy, ovviamente.
Non so che tipo di pena sia la più giusta e disumana da infliggere al signor Misseri, non mi voglio addentrare in questioni prettamente giuridiche, poiché non possiedo le conoscenze adatte per farlo.
Un consiglio, da diciannovenne che ha visto una quindicenne morire così brutalmente, potrei darlo?
Ammazzatelo, ma ammazzatelo dentro. Non liberiamolo dallo schifo che ha creato con le sue stesse mani, non lasciamolo andare in Cielo o in qualsiasi altro posto senza aver patito il peggio che si possa patire. Deve restare qui, Michele Misseri, a pagare con il sangue e l’anima sanguinante fino all’ultimo dei suoi giorni.
Io prego di condannare Michele Misseri a morte, a morte interiore.