Un ragazzo di allora racconta

nuovo-cinema-paradisoIl treno non arrivava mai, non avevo ancora il senso della velocità e delle distanze e a ogni stazione ferroviaria che il treno fermava domandavo a mio fratello se quella era la stazione di Reggio  Calabria. Era la prima volta che salivo su un treno e tutto mi sembrava irreale. Vedevo i pali telegrafici accanto alla ferrovia spostarsi in dietro e tutto ciò che si vedeva fuori dai finestrini correva con velocità fantastica mentre io mi vedevo fermo con tutto quello che mi stava vicino. Il treno sembrava non si muovesse e le cose  fuori di esso correvano all’impazzata. Strana sensazione. I fili telegrafici a centinaia tra un palo e l’altro si arcuavano  e le case e gli alberi sparivano come per incanto all’indietro. . .

Era il 1940. Il rombo degli aeroplani bombardieri nemici non si sentiva più quando arrivavano sopra di noi e iniziava a sparare la contraerea di Reggio e di Messina. Il fragore delle cannonate  e gli scoppi in aria dei proiettili superava di gran lunga i mille decibel. Si era nel convento dei Cappuccini a Fiumara di Muro, paese natio di Mino Reitano. Il Convento era in alto al paese, in una grande tenuta tutta aranci e limoni e dominava  la valle da Catona a Reggio Calabria e tutta la costa orientale della Sicilia con l’Etna e i monti Peloritani

Da li lo stretto di Messina è uno spettacolo incredibile di bellezza, navi di ogni genere che si incrociano per tutto il tratto di mare che si vede e i colori  cangianti dell’acqua dello stretto sono più belli delle pennellate di Michelangelo su tela.

Nell’ ottobre del 1940 fui proiettato, per mio volere e per quello della Mamma mia nel Convento dei Cappuccini a Fiumara di Muro. La mia Mamma mi aveva preparato il “corredo” in base alla lista dei collegiali: magliette, camicie,  calze, ecc. e così un bel mattino di fine ottobre mio fratello  mi portava in quel luogo di preghiera e di studio. Arrivati  a Reggio da Ferruzzano con un treno del mattino prendemmo una carrozza, ora sparita nel tempo, trainata da un cavallo storno e ci dirigemmo alla volta di Fiumara.  . . .

Era la prima volta che mi allontanavo da casa e i primi giorni erano per me carichi di malinconia. I miei compagni più grandi mi confortavano e i buoni Padri Cappuccini erano tanto amorevoli.

Il Convento era maestoso, c’erano due dormitori con in mezzo la camera con due finestrelle da tutte e due i lati del Padre Superiore e da quella stanza si potevano controllare tutti i lettini in fila, ordinati in modo impeccabile, che stavano dentro i dormitori dei collegiali. Il Convento era attrezzato di tutto: bagni a sufficienza, corridoi, oratorio, lavanderia, chiesetta e sale di studio con banchi, lavagna e cattedra. Le fontane che erano trentacinque facevano scorrere a pressione acqua potabile che era abbondante. Per me erano novità la luce elettrica e i rubinetti dell’acqua in casa. Al mio paese non esistevano e la radio che avevamo era alimentata a pile a secco e con antenna lunghissima all’esterno.

La vita in quel serafico luogo era serena malgrado i bombardamenti durante le notti. La giornata era regolata in modo razionale. Al mattino la preghiera, la colazione, lo studio, la ricreazione, lo studio ancora e la ricreazione, il pranzo, durante il quale un collegiale a turno leggeva un passo del Vangelo,  le preghiere e il riposo. . .

Prima di Natale c’era il giorno della “vestizione”  per gli arrivati del  nuovo anno e quel giorno indossavo con piacere l’abito di frate. La tunica marrone col cappuccio e il cordone bianco al cinto con tre nodi: ubbidienza, castità, povertà mi dava gioia, bontà, pace. Ero diventato studiosissimo e apprendevo le lezioni con la massima facilità anche perché quei buoni Padri Cappuccini erano pazienti e preparati.

I Padri Cappuccini che ricordo con enorme piacere, ammirazione e stima erano Padre Salvatore, Padre Vitaliano e Padre Anacleto.  Dopo pochi mesi dell’anno scolastico il Padre Direttore mi chiama per parlarmi, ero tutto impaurito e temevo chi sa che cosa. Mi fa un bel discorso e mi nomina “decano”. Il decano faceva le veci del direttore in sua assenza ed era colui il quale aveva il compito  durante il giorno alla sorveglianza dei collegiali, ordinare le ore di studio, suonare la campanella e tutto ciò che era a priori stabilito compresa la “catenella”.

Il metodo di studio era eccellente durante tutto l’arco della giornata. La catenella, piccolo oggetto, circolava di nascosto nelle ore di ricreazione e veniva consegnata a colui che commetteva qualche errore di grammatica o diceva qualche parola in dialetto, capitava che in pochi minuti passasse tra le mani di dieci ragazzi. Bisognava sbarazzarsene perché chi la possedeva all’ora di pranzo pagava con un piccolo fioretto sul pranzo stesso. Francamente non ero all’altezza del compito di decano. Ero tra i più piccoli e con corporatura minuscola e non me la sentivo di ordinare questo o quello ai miei compagni tutti amici e bravi ragazzi. Comunque svolgevo il mio compito con serietà e dignitosamente fino a quando, assentatosi il Padre Direttore per andare a Palermo per otto giorni mi convocava esponendomi il suo programma. Filava tutto liscio per i primi due o tre giorni. Normalmente la ricreazione avveniva in un grande viale con sopra un pergolato “fragola”, limitato da un lato da un muro a secco di pietra bianca e ruvida e dall’altro lato  da giardino coltivato a limoni e aranci. I limoni  belli maturi facevano troppa gola e così, quasi tutti i miei amici e compagni sono diventati “briganti”, “monellacci”. disubbidienti. Cercavo di riprenderli, ma niente da fare. La prima cosa che mi frullava per la testa era di dare le dimissioni da quell’incarico non appena il Padre Direttore fosse rientrato. Cosa fatta immediatamente. Intanto il muro a secco bianco che limitava il viale era diventato giallo, di un giallo intenso visibile a grande distanza perché essendo ruvido i limoni dei “monellacci” venivano grattugiati su quelle pietre.

Non so con quale mezzo fosse venuto a trovarmi mio Padre era arrivato al Convento che era già notte. Meno male che era di giugno. Bussò al portone ripetutamente e con forza, ma nessuno aprì. Non era solito che arrivassero visitatori o pellegrini a quell’ora ed essendo molto grande il Convento non si poteva sentire. In paese non c’erano alberghi e così rimase fuori tutta la notte per troppa sua delicatezza. Povero il mio Papà . . .

A turno in Convento si serviva la messa e si badava a “Zio Peppe”, un vecchietto senza nessuno, accolto dai Cappuccini che lo curavano e lo nutrivano. Quando voleva mangiare e bere un bicchiere di vino gridava a squarciagola.
In quel Convento, oltre ai Padri Cappuccini c’erano i Fratti Cappuccini che non avevano Messa e  che avevano dedicato pure la loro vita a Gesù.

Il nome più singolare tra i compagni era Gesù. diminutivo di Gesuele.  Il nome era proprio appropriato in quel luogo di pace, di preghiera, di studio e di lavoro. All’inizio quel nome suonava per me come qualcosa di trascendentale, di mistico. Non mi sbagliavo. . .
Due o più dei miei compagni di allora hanno abbracciato le vie del Signore.  Sono Padri Cappuccini, seguaci di San Francesco e durante le loro Messe il Vangelo è il loro pane quotidiano. Gesù è il Padre Superiore del Convento di Chiaravalle e porta il nome di Padre Bernardino mentre un altro mio compagno e amico di allora è Padre Albino nel Convento di Nicastro.

L'immagine è tratta dal film " Nuovo cinema Paradiso" di Giuseppe Tornatore