mail.google.com-2mail.google.comGentile Direttore, Le mando tre degli undici racconti del mio "Pilipintò-racconti da bagno per siciliani e non" di cui Le allego anche la copertina un po'... monella. Il libro è stato pubblicato su Amazon pensando proprio agli italiani all'estero (il contenuto è infatti identico a quello del libro pubblicato in Italia). Cambiano -per motivi di copyright- come può vedere dall'allegato, sia la copertina che il titolo.Il libro sta avendo in Italia un successo inaspettato (almeno da me). Ci sono state recensioni favorevoli sulla stampa, ma le le cito solo quelle che mi fanno più piacere perchè sono di persone sconosciute, semplici appassionati della lettura di diverdse parti d'Italia,  che si sono passati il libro e hanno poi pubblicato le loro impressioni su www.anobii.com. Ecco il link:

http://www.anobii.com/books/Pilipint%C3%B2/9788863073393/01a0d1760bfa925b61/

Nella versione "estera" il libro è rimasto pressochè sconosciuto - cosa che tutto sommato non sorprende perchè si tratta di una platea di potenziali lettori più difficile da raggiungere. Eppure continuo a pensare che sarebbe un regalo piacevole per chi vuole fare un... viaggio divertente nel DNA di noi Italiani del Sud.

Carlo Barbieri

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Carlo Barbieri si definisce "Chimico e marketer pentito". Ha vissuto a Palermo, Catania, Teheran, Il Cairo. Adesso scrive "... e vive fra Roma e Palermo senza riuscire a decidersi, perché ha Palermo nel cuore ma… ". Ringrazio sentitamente lo scrittore Dr. Carlo Barbieri per il bel regalo e iniziamo pubblicando il primo racconto. Pilipintò. Ernesta Adele Marando

Pilipintò


«Di ferie quest’anno neanche a parlarne...».
Quando il commissario Mancuso parlava da solo era segno che le
ferie ci volevano, eccome. Il commissario allungò la mano verso
la tazzina sotto gli occhi preoccupati dell’agente Cavicchia che
quella mattina gliene aveva già portati quattro. Cavicchia quel
film l’aveva visto già mille volte: al suo capo la stanchezza gli
smuoveva il mal di testa, il mal di testa gli faceva consumare
quantità smisurate di caffè a scopo terapeutico, il caffè lo faceva
diventare nervoso, e quando era nervoso se la pigliava con lui.
«Ma che schifo di caffè mi porti, Cavicchia? Hai cambiato marca,
aah? Sto’ caffè non mi piace e non funziona...».
«Sempre lo stesso è, dottore... sempre lo stesso è...».
«Mah. A me mi pare... vabbè grazie, vah. Chiudi la porta e blocca
le telefonate che debbo pensare».
L’agente uscì chiudendo la porta delicatamente, e il commissario
ricominciò a parlare. Pareva un interrogatorio a se stesso.
«Dunque Mancuso. Ricapitoliamo. Tre mesi fa sei andato
all’Ospedale Civico per vedere uno scippatore di mezza tacca, un
poco per interrogarlo e un poco perché avevi sulla coscienza quei
due timpoloni di troppo che gli avevi dato quando l’avevi
arrestato. Giusto? Giusto. E mentre eri lì è scoppiato il putiferio.
Totò Reggina, che era ricoverato da una settimana in gran segreto,
tanto che non lo sapevi neanche tu, perché dava sempre più spesso
di testa e di stomaco, se ne stava andando a raggiungere tutti quelli
che aveva ammazzato. E tu, stronzo, sei andato a trovarlo
sperando in chissà quale rivelazione dell’ultimo momento.
Giusto? Giusto. Giusto una minchia. Quello ti vede vicino al
lettino, ti riconosce, ti fa abbassare e ti soffia nelle orecchie
“M’abbilinaru”. “E chi ti ha avvelenato?” E lì, porca di una porca,
con l’ultimo fiato ti sputacchia quella cosa nell’orecchio
“Pili...pin...to...”. E arrivederci e sono. E ti lassa in mezzo ai guai.
Perché ora le indagini sono tue, caro commissario Mancuso...».
La marcia dell’Aida gli scoppiò nel cervello dolorante. Maledetto
il giorno che aveva messo quella suoneria per sbaglio, non l’aveva
saputa togliere più.
«Pronto, Mancuso... sì signor vicequestore... ma quale disturbo...
no gliel’ho detto io ma certamente non valeva per lei, le chiedo
scusa... stiamo facendo il possibile... certo, certo, anche
l’impossibile... no ancora non hanno capito di che veleno si... non
dubiti... ci sentiamo...».
Adesso in testa aveva un martello pneumatico perfettamente
accordato con il battito cardiaco. «Allora dove eravamo... ah, sì.
Commissario, tu lo sai benissimo perché Totò Reggina è stato
ucciso. Totò Reggina era invecchiato. Per tutti Totò Reggina era
rimasto sempre quello delle foto del giorno dell’arresto, con quella
faccia anonima da uomo qualsiasi. Ma di anni ne erano passati
tanti. E quando gli anni passano, a risentirne non è solo l’aspetto:
pure il cervello. E Reggina non invecchiava bene, correva voce
che stava cambiando carattere, certe volte era depresso e parlava
poco, altre volte era nervoso e parlava troppo... mai di cose
delicate, ma parlava troppo. E quando un boss dei boss comincia a
parlare troppo, magari dopo vent’anni di carcere, può fare ancora
danni...».
Finì il caffè nella tazzina e riprese il filo, stavolta mentalmente.
Non gli importava sapere chi era il mandante dell’assassinio. O
forse sapeva già che non l’avrebbe mai scoperto. Ma come
avevano fatto? Con quale veleno e come erano riusciti a fotterlo
fin dentro il carcere, Totò Reggina? Questo sì che lo voleva
sapere. Almeno quello.
I suoi si erano messi subito al lavoro per collegare quel
“Pili...pin...to” a una traccia. Neanche mezz’ora dopo che aveva
distribuito i compiti l’agente Calò gli era entrato di corsa in ufficio
tutto contento. Aveva trovato su internet che Pilipinto era una
località del Perù: del Perù, secondo produttore di coca al mondo.
Ecco la pista, un poco strana in verità, lui si sarebbe aspettato
casomai la Colombia... ma aveva subito messo di mezzo
l’Interpol. Quando gli avevano detto che Pilipinto era una specie
di oasi di bravi ragazzi che non avevano niente a che fare con la
droga, lui era andato a controllare di persona, dieci giorni di cui si
ricordava tutto con terrore: i vuoti d’aria dell’interminabile volo
attraverso l’Atlantico e poi le corriere stipate di gente con animali
al seguito, i battelli, le strade tutte buche, il mangiare terribile e
soprattutto il volo di ritorno con l’intestino sottosopra. Era tornato
distrutto e convinto: quel Pilipinto non c’entrava. A Calò per la
vergogna era venuta la febbre e aveva girato per una settimana per
il commissariato con la faccia rossa e gli occhi lucidi che
sembrava volesse piangere.
E così la caccia al “Pili...pin...to” era ripartita. Ma non si faceva
neanche un passetto avanti... prese la tazzina e la portò alle labbra
rovesciando indietro la testa sempre di più finché si trovò a
guardare il soffitto. Neanche una goccia. Aprì la bocca per
chiamare Cavicchia, poi la richiuse. Avrebbe provato con il caffè
del bar. Anzi avrebbe fatto una passeggiata. La verità era che
aveva le smanie. Si alzò e uscì dalla stanza.
«Ragazzi, io vado a prendere una boccata d’aria. Debbo pensare.
Forse ci vediamo domani direttamente. Mi raccomando, se ci sono
novità...». Gli era venuto un desiderio improvviso di staccare, di
dimenticarsi Reggina e tutto il resto per un po’. Sì, una bella
passeggiata era quello che ci voleva. Ma la passeggiata durò fino
al bar all’angolo della piazza. Entrò, ma invece del caffè si fece
l’aperitivo con le patatine. E poi un’arancina, maledicendo come
sempre chi aveva convinto mezzo mondo che si chiamavano
arancini. Il mal di testa gli passò all’istante e si ricordò che la sera
prima non aveva praticamente mangiato. Ecco che cos’era: aveva
fame. Si sedette e si fece portare di tutto: una ravazzata con carne,
uno spitino, uno sfincionello... mangiava come un lupo e a un
certo punto Franco, il proprietario-barista-cassiere, dovette
soccorrerlo d’urgenza con un boccale di birra ghiacciata in
funzione antistrozzamento. Ora si sentiva molto meglio... pagò e
uscì nel sole di giugno. La testa gli diceva di tornare in ufficio ma
i piedi lo portavano verso casa. Decise di assecondarli, e mezz’ora
dopo era a letto vestito di tutto punto, scarpe comprese. Fece
appena in tempo a ricordarsi che in effetti negli ultimi giorni non
aveva quasi dormito che era già sprofondato in un sonno senza
sogni.
Si svegliò che erano le quattro del pomeriggio, senza mal di testa e
stupito che nessuno l’avesse ancora chiamato al cellulare. Già, il
cellulare. Dov’era andato a finire il cellulare? Improvvisamente gli
venne in mente la scena: la telefonata del vicequestore... l’aveva
lasciato sul tavolo. Maledizione. Chissà quante chiamate... prese il
telefono di casa e scoprì che dava occupato. L’aveva lasciato fuori
posto. Minchia era rimasto irraggiungibile per quattro ore.
Chiamò subito il commissariato. Rispose Tranchina che
manco lo lasciò finire di dire “pronto”:
«Dottore, Tranchina sono! L’abbiamo cercato per mare e per
terra! Si scurdò ‘u telefoninu ‘ccà! Era ‘a casa, vero? Il telefono
dava occupato... ci sono novità grosse! Attruvamu Pilipintò!».
«Come? Cheddici?».
«Dottore Pilipintò attruvamu! Uno senza fissa dimora, ora ci
spiego...». «No, non mi spiegare niente, arrivo». Si sciacquò la
faccia, uscì e si rese conto che la macchina l’aveva lasciata al
commissariato. Si mise a correre mentre Giovannino, decenne
figlio di buttana ad honorem della onestissima vicina, gli gridava
dietro «Commissario, la sirena si scordò!».
Arrivò in cinque minuti. Si fermò un attimo all’angolo per
recuperare un poco di fiato e di dignità, si aggiustò la camicia
dentro i pantaloni ed entrò. Nessuno in vista. Dalla stanza di Calò
e Tranchina arrivava una strana, incessante cantilena:
Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a
tric e trac nesci unu e trasi n’autru
Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a
tric e trac nesci unu e trasi n’autru
Pilipintò...
Mancuso entrò e rimase sbalordito. Nella stanza c’era mezzo
commissariato in piedi attorno a Calò che stava seduto alla sua
scrivania di fronte a un uomo mai visto. Tenevano tutti e due la
mano sul tavolo e lo sconosciuto mostrava tre dita, Calò solo uno.
Lo sconosciuto faceva la conta toccando le dita sul tavolo al ritmo
della filastrocca. Al “...n’autru” si fermava, e il proprietario della
mano tirava fuori un altro dito. A un certo punto l’ospite tirò fuori
il quinto dito mentre Calò era ancora a due, e urlò «Vincivu!!!».
Ci fu un applauso, e solo in quel momento qualcuno si accorse
della presenza del capo. «’U dutturi c’è!».
Il gruppo si scompigliò ma la porta della stanza era presidiata dal
commissario che impediva la fuga.
«Ma che minchia state facendo, aah?».
Calò, che era scattato in piedi, sparò tutto d’un fiato «Niente
Dottore il signor Pilipintò qui ci faceva vedere il Pilipintò a scopo
dimostrativo del fatto che lui si chiama Pilipintò anzi veramente
Celafai Giuseppe noto come Pilip...».
«Fermati lì. Poi ne parliamo. Tranchina, nel mio ufficio subito! Tu
e il signor... il signor...»
«Celafai Giuseppe detto Pilipintò...».
«Ecco, con lui. Subito, aah?».
Un minuto dopo il signor Celafai Giuseppe, detto Pilipintò, era
seduto di fronte al commissario Mancuso che lo guardava in
silenzio con occhi che sembravano punte di trapano. Occhi che
mettevano a disagio i delinquenti e pure quelli che delinquenti,
almeno per la legge, non erano. Celafai Giuseppe era piccolo e
magro, occhi chiari in una faccia cotta dal sole, i capelli brizzolati
sforbiciati da qualche mano tanto caritatevole quanto inesperta.
Non pareva affatto a disagio e guardava il commissario in faccia,
con un sorriso da bambino sulle labbra. Fu lui a parlare per primo.
«Non sono mai stato davanti a un vero commissario... in
commissariato sì, ma davanti a un commissario no... c’è qualche
cosa da mangiare?». Mancuso rimase spiazzato dalla richiesta e
dal buon italiano quasi senza accento. Si rivolse a Tranchina che
stava in piedi vicino alla porta.
«Tranchina fai portare dal bar un cappuccino e un cornetto».
«Si può avere pure un’arancina?»
«... e un’arancina». Tranchina uscì e rimasero soli.
«Dunque signor...»
«...Celafai Giuseppe detto Pilipintò»
«...sì, detto Pilipintò. Mi parli di lei. Dove abita e come campa?».
«Signor commissario io abito dove mi capita. Casa non ne ho.
Qualche volta dormo alla Caritas, mangio e mi vesto con quello
che mi danno loro e con l’aiuto di qualche persona buona... campo
così».
«E com’è che la chiamano Pilipintò?».
«Commissario mi dovrebbe pure chiedere com’è che mi chiamo
Celafai... non le pare un cognome strano?».
«E va bene, mi racconti. Sono qua».
«Ce l’ha una sigaretta?».
Mancuso cominciava ad incazzarsi. «Qui non si può fumare».
«Ma io me la fumo dopo...».
Qualcosa in quegli occhi... Mancuso prese il telefono. «Calò..?
Telefona al bar, digli che insieme al cappuccino, al cornetto e
all’arancina voglio un pacchetto di sigarette... sigarette, sigarette,
quelle che si fumano... e che ne so io...».
Celafai si sporse in avanti: «Marlboro per favore».
«... ecco, Marlboro».
«Light».
«Light!» urlò il commissario sbattendo giù il telefono. «E
allora?».
Celafai Giuseppe detto Pilipintò avvicinò la sedia e appoggiò le
mani sul tavolo. «Signor commissario, io sono un figlio di
puttana».
«Chi lei? In che senso?».
«E in che senso vuole? Nel senso che mia madre era una
prostituta. Un giorno rimase incinta e decise, Dio solo sa perché,
di non abortire. Però l’amore per me si fermò lì. Mi abbandonò
davanti a una salumeria vicino all’ingresso di un
istituto per trovatelli gestito da suore. Non ho mai capito perché
proprio davanti a una salumeria. Comunque le suore mi presero e
invece di chiamarmi Esposito, Trovato o D’Ignoti, decisero che
Celafai era più originale e magari di augurio... mi feci le
elementari con le suore, poi le medie e le superiori con i salesiani.
Mi sono preso un diploma... ho pure vinto un concorso nelle
ferrovie... poi ho avuto problemi con la testa». Il sorriso da
bambino non c’era più.
«Mi dicono che un giorno mi sono licenziato, ma non me lo
ricordo. Comunque è stato tanto tempo fa». Passò un minuto. Il
commissario chiese sottovoce: «E perché l’hanno chiamata
Pilipintò?».
«Ah, quello... quello è successo alle medie. Un giorno è venuto
uno tutto elegante a prendere un nostro compagno. Ci dissero che
era suo padre, che si era rifatto vivo dopo dodici anni. Tutti
cominciammo a sperare che prima o poi sarebbe successo anche a
noi. Io questa cosa me lo sognavo in continuazione, sempre alla
stessa maniera: si fermava davanti alla scuola una macchina lunga
lunga e bianca bianca e scendeva un uomo alto, bello, con i baffi e
il cappello a cilindro, vestito come per un matrimonio... si
presentava davanti al cancello e gridava “Giuseppe!”. Il cancello
si apriva solo solo e io uscivo... certe volte di corsa, certe volte
volando con le braccia aperte come un aeroplano... e lui mi
abbracciava. Mi ricordo pure il profumo che aveva nel sogno. Un
profumo bellissimo...».
«E poi?».
«E poi feci l’errore di confidarmi con il mio compagno di banco.
E lui si mise a ridere e mi disse “Giusè, pì tia spiranza ‘un ci
nn’è... altro che machina bianca, un pullman ci vorrebbe... un
pullman chinu di patri...”». Mi arrabbiai e gli domandai che
minchia voleva dire. E lui mi rispose “Giuseppe, l’hai presente il
Pilipintò? Come fa? “nesci unu e trasi n’autru”. To’ matri se la
faceva cu un masculu appressu all’autru, e perciò tu non lo potrai
sapere mai chi è tuo padre”. Dottore io credo che la parola “padre”
non l’arrivò manco a dire perché gli diedi un timpolone così forte
che andò a finire a terra e gli uscì pure sangue dal naso.
Lui si vendicò sputtanandomi con tutti, e da quel giorno diventai
Pilipintò. E Pilipintò sono rimasto. Celafai Giuseppe, detto
Pilipintò. Diplomato e pazzo senza fissa dimora».
Il commissario Mancuso aveva un bel po’ di pelo sullo stomaco
ma da qualche parte doveva essersi aperta una falla, perché avvertì
uno strano groppo alla gola che mandò giù con un colpo di tosse.
Per fortuna in quel momento bussarono ed entrò il ragazzo del bar
preceduto da Tranchina.
«Tranchina per favore fai accomodare il signor Celafai nel primo
tavolo vuoto che trovi. Signor Celafai, grazie, può andare».
Celafai Giuseppe detto Pilipintò si alzò. Gli occhi e il sorriso
erano di nuovo quelli di prima.
«Grazie signor commissario».
Mancuso gli diede la mano. Mentre Celafai era già sulla porta, lo
chiamò:
«Celafai!».
«Signor commissario»
«Lei ne sa niente della morte di Salvatore Reggina?».
«Chi... io?»
«Niente niente. Mi scusi. Arrivederla».
La porta si richiuse. E lui era di nuovo al punto di partenza. ... Il
commissario Mancuso quella sera cenò a pistacchi e whisky e
dormì malissimo. Sognò una macchina lunghissima che faceva le
curve snodandosi come un serpente e da cui scendeva un
Salvatore Reggina tutto vestito di nero che entrava in chiesa per
assistere al proprio funerale. La chiesa era affollata di uomini
baffuti in cilindro vestiti di bianco che, quando il sacerdote
allargava le braccia e diceva “preghiamo”, mettevano la mano
sinistra sul banco e facevano la conta in coro:
Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a
tric e trac nesci unu e trasi n’autru
Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a
tric e trac nesci unu e trasi n’autru
Pilipintò...
Si svegliò presto e arrivò in ufficio prima del solito. Da una stanza
veniva quella cantilena che ormai gli aveva proprio rotto le palle,
stavano rimbecillendo tutti dietro quel gioco cretino. Chiamò
Tranchina.
«Tranchina, ma chi è che si diverte con questa minchia di
Pilipintò?». «Al momento sono Calò e Miccichè, dottore».
«Ma che ci trovano di speciale? Anzi che ci trovate tutti? Mi
sembrate davvero pazzi...»
«Dottore vero è, il gioco forse è un poco stupido, però c’è un
trucco ed è quello che stiamo cercando di capire».
«Un trucco? Ma come, un gioco così fesso ha pure il trucco?».
«Sì dottore... come lei sa, vince chi... come dire, chi mette fuori il
quinto dito per primo, quindi quello che vince la conta più volte...
mi spiego?».
«E allora?».
«E allora, secondo da quale dito si parte, si sa dove si fermerà la
conta...».
«”E allora”, per fare le cose giuste basta partire da un dito a caso...
o no?».
«Eh sì dottore, era quello che faceva apparentemente Celafai
Giuseppe. Apparentemente però. Lui sembrava che partiva ogni
volta da un dito qualunque, certe volte ci faceva pure scegliere a
noi... e qualche volta veramente la conta cadeva sul dito
dell’avversario, ma alla fine il quinto dito lo metteva sempre fuori
lui. Non ha perso mai».
«Insomma sapeva in anticipo dove sarebbe caduta la conta e
manovrava il gioco senza che sembrasse?».
«Esatto. Le faccio vedere. Mi posso sedere?».
«E siediti».
«Chiuda la mano a pugno dottore. Da dove vuole cominciare la
conta?»
«Cominciamo da me».
Misero tutti e due il pugno chiuso sul tavolo uno di fronte all’altro.
Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a
tric e trac nesci unu e trasi n’autru
Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai l’ha fatta la bella doti, ti l’hai fatta
a tric e trac...
Non sentirono bussare. La porta si aprì ed entrò il vicequestore
Mangano scortato da Calò che si fermò sulla soglia tutto rosso e
agitato.
«Spero di non disturbare...».
Tranchina si alzò di scatto, Mancuso si alzò pure, più sciolto ma
dimenticando di riaprire il pugno.
«Mancuso ma che stava facendo con il suo collaboratore?».
«Verificavamo ipotesi connesse a indagini, dottore Mangano».
«Quella filastrocca e il saluto comunista servono a “verificare
ipotesi connesse a indagini”?».
Mancuso glissò: «Dottore si accomodi prego...»
«Grazie, ma sto solo un minuto. Allora? A che punto siamo con
Reggina?».
Tranchina sparì attraverso la porta con la fluida circospezione di
un polpo che si ritira nella tana. Nell’uscire si risucchiò dietro
Calò che ora sembrava pietrificato e richiuse piano la porta.
«Dottore Mangano se...».
«Mancuso, la fermo subito, andiamo ai fatti. Va bene?».
«E andiamoci, dottore...».
«Reggina aveva ottant’anni. Ha passato la maggior parte degli
ultimi trent’anni in isolamento. Dopo che ha cominciato a dare
qualche segno di demenza senile lo abbiamo messo in una cella a
due, ma abbiamo avuto sempre cura di mettergli vicino
delinquenti di piccolo cabotaggio senza l’ombra di rapporti con la
mafia. Gente insospettabile, che non aveva nessun motivo per
fargli la pelle, e che abbiamo cambiato molto spesso. Eppure
Reggina è stato ammazzato. E’ stato ammazzato tre mesi fa e da
tre mesi, come dicono i giornalisti, “la polizia brancola nel buio”.
Che mi dice?».
«E che le debbo dire dottore? Non sappiamo neanche con che cosa
è stato avvelenato...».
«E io per questo sono qua. Ora lo sappiamo, mi hanno appena
chiamato».
«E con che cosa è stato avvelenato?».
«Mercurio».
«Mercurio?».
«Più esattamente un composto organico del mercurio. Una
sostanza che procura una morte abbastanza rapida se la dose è
sufficientemente elevata, ma capace di uccidere lentamente, per
accumulo, se viene somministrata in diverse micro dosi distanziate
nel tempo... e in questo caso dà sintomi neurologici che si possono
confondere con la demenza progressiva. Nel caso di Reggina è
sicuro che il veleno è stato assorbito in più dosi piccolissime
distribuite probabilmente negli ultimi sei mesi. In questo tempo il
nostro ex boss ha avuto ben cinque compagni di cella, ripeto tutti
piccoli delinquenti, e l’idea che siano tutti e cinque coinvolti
nell’omicidio mi pare francamente assurda. Secondo me
l’assassino è una guardia carceraria, o
qualcuno dell’infermeria... insomma Mancuso il commissario è
lei. Ha voluto carta bianca e gliel’ho data. Ora che ha anche questa
informazione, che facciamo, ce la vogliamo scrivere qualche cosa
sopra questa maledetta carta bianca? Io le dico solo che il governo
si sta vantando da un pezzo dei successi che ha messo a segno
contro la mafia e questa storia gli sta rovinando la festa. Quindi
siamo nel mirino. Lei e io. Allora Mancuso? Che mi dice?».
Il commissario Mancuso sollevò le mani con le palme in su: «E
che le posso dire dottore? Le dico che ci stiamo lavorando sopra,
le dico che è la nostra assoluta priorità...». Il vicequestore si alzò.
«Mancuso, non mi basta. Lei ha una buona reputazione. Non la
butti via. Non le dico altro. Buon lavoro e arrivederci».
Al commissario Mancuso ricominciò il mal di testa, e stavolta non
era la fame. Cercò di concentrarsi sulla normale amministrazione.
Leggeva e firmava, firmava e leggeva. Intanto la filastrocca lo
ossessionava. “Pilipintò, Pilipintò...”. Si era fatta ora di pranzo.
Sbattè la penna sul tavolo, ruggì un “Pilipintòstaminchia!” e
uscì dal commissariato sbattendo tutte le porte che incontrava.
L’aperitivo lo lasciò a metà, la passeggiata lo annoiò, il panino gli
andò di traverso e il caffè sapeva di cesso. Si comprò una rivista,
entrò ai giardini pubblici e si sedette su una panchina a leggere. Si
alzò dopo dieci minuti, buttò la rivista in un cestino ed entrò in un
bar. Chiese un espresso, che risultò il gemello di quello di prima,
se lo fece rifare e lasciò pure quello. Finalmente se ne tornò in
commissariato più incazzato di quando ne era uscito. Fu bloccato
davanti alla porta del suo ufficio da un eccitatissimo Cavicchia.
«Dottore, un sequestro-rapina alla gioielleria Lucchese ci fu!».
«Alla gioielleria Lucchese? Quella qua vicino? Ma quando?».
«Due ore fa. Hanno sequestrato la figlia di Lucchese all’uscita
della scuola e lo stesso Lucchese ha dovuto accompagnare il
rapinatore alla gioielleria durante l’orario di chiusura, aprire la
cassaforte e consegnargli tutto. Duecentomila euro di oro, gioielli
e orologi. La ragazzina l’hanno liberata.»
Mancuso non aveva figli ma aveva nipoti che amava più della luce
degli occhi e si era chiesto più di una volta cosa avrebbe fatto lui
in una situazione del genere. «E come sta?».
«Sta bene, non le hanno fatto niente».
«E lui dov’è?».
«Qua, l’abbiamo fatto accomodare nel suo ufficio».
Lucchese era seduto nella sedia degli ospiti vicino alla sua
scrivania e accennò subito ad alzarsi. «Commissario...».
«Signor Lucchese! Stia comodo la prego».
Si conoscevano di vista. Il gioielliere aveva meno di
cinquant’anni, e lo ricordava sempre elegante. Adesso era uno
straccio, con i radi capelli per aria e la cravatta allentata. Mancuso
girò attorno alla scrivania e gli si sedette di fronte in silenzio. Lui
la storia non aveva bisogno di sentirla, la sapeva già. Succedeva
sempre più spesso. Ti pigliano di mira, sequestrano una persona
che ti sta a cuore e tu sei costretto a scambiarla con tutti i soldi e
gli oggetti di valore che riesci a mettere insieme in poche ore di
terrore. Il sequestro è quasi sempre su commissione e se ne
occupano criminali in trasferta, magari dall’estero, che arrivano,
fanno il colpo e il giorno dopo si comportano da turisti o sono già
di nuovo nel paese da dove sono venuti. Valli a rintracciare.
«So che sua figlia sta bene».
«Sì grazie a Dio».
«È assicurato?».
«Non lo so commissario. Cioè sì, una polizza contro furti e rapine
ce l’ho, ma i termini del contratto non li ho a mente. Qui non c’è
stato furto con scasso perché le chiavi le ho tirate fuori io... non
c’è stata violenza sulla mia persona, né testimoni... certo, io dico
che è una rapina ma lo sa come sono le assicurazioni...
comunquecommissario queste sono preoccupazioni di domani.
Oggi sono solo contento che la mia bambina è di nuovo a casa».
«E a casa deve andare pure lei, signor Lucchese. I miei l’hanno
già interrogata?».
«Gli ho detto tutto il poco che potevo. È stata una cosa così...
così...».
«Lo capisco. Va bene, se serve ci vediamo domani. Vada a casa».
Il signor Lucchese si alzò con fatica, non ce la faceva più.
«Grazie commissario. Sono a sua disposizione».
Mentre il gioielliere usciva, Tranchina mise la testa dentro.
«Posso?».
«Entra Tranchina. Che c’è?».
«Primo venerdì del mese. Penitenza».
«Ma come, di già?».
Lui due cose odiava: la pratichetta del rimborso spese periodico e
il rapporto sull’attività mensile. Il rimborso spese poteva farlo
quando voleva, al massimo poi si trovava a dover buttare via
scontrini e ricevute di cui non ricordava più niente; ma il rapporto
sull’attività doveva essere sul tavolo del vicequestore entro il 7 di
ogni mese, non poteva scappare, perché il vicequestore doveva
fare a sua volta il suo al questore entro il 9. E così Tranchina
aveva l’ordine di camurriarlo ogni primo venerdì del mese e si
dedicava al compito con entusiasmo. Entrò con una bracciata di
faldoni colorati, li depositò sul tavolo del commissario e si sedette.
«Dottore guardi che c’è qua... queste nella cartella verde sono tutte
pratiche nuove... il nostro commissariato è come quel film, se lo
ricorda, “Gente che va, gente che viene...”».
Mancuso prese la cartella e sorrise: «Grand Hotel, con Greta
Garbo... un film degli anni trenta. Ma tu come lo conosci? Sei
appassionato?».
«No dottore, me l’ha detto Celafai Giuseppe. Ha detto che se quel
film ha preso l’Oscar, pure il Pilipintò dovrebbe prendere un
premio. Perché se da un lato è un gioco, dall’altro è la storia di
una che per farsi la dote faceva “tric e trac” con tanti uomini...
“nesci unu e trasi n’autru”... gente che va e gente che viene come
il film, eh dottore? Eh dottore? Do...».
Tranchina ammutolì.
Mancuso aveva chiuso gli occhi a fessura e abbassava lentamente
il capo, intanto che una ruga cominciava a spaccargli la fronte da
una tempia all’altra. In testa gli era scoppiata una tempesta di
mezze idee e mezze intuizioni che si azzuffavano senza che lui
potesse afferrarne una saldamente. Tranchina aveva imparato che
quando il suo capo faceva così, si aveva solo il permesso di
respirare, e solo con moderazione.
«Calma Mancuso. Calmacalma».
Parlava da solo. Era il segnale di massima allerta, e Tranchina
mise in atto la consueta manovra polpesca. Si alzò
lentissimamente e cominciò a spostarsi verso la porta. Ci mise un
minuto buono, ma adesso il commissario, che ormai andava a
ruota libera, era solo.
«Ricapitoliamo Mancuso. Reggina in punto di morte ti dice
“m’abbilinaru” e “Pili... pin... to”, giusto? Giusto. I fatti sono due:
con sta minchia di “Pili... pin... to” voleva dirti una cosa
importante o ti voleva prendere per il culo. Giusto? Giusto.
Commissario Mancuso, a te in punto di morte, e avendo capito che
ti hanno avvelenato, ti verrebbe l’idea di prendere per il culo un
commissario di polizia, pure se ti sta sulle palle? Io dico di no.
Siamo d’accordo. Allora diciamo che voleva denunciare
l’assassino. Giusto? Giusto. Quindi lo conosceva, giusto? Giusto.
Ma perché allora non ti ha detto il nome? Risposta: perché non lo
sapeva, o non lo ricordava. Però gli agenti di custodia con cui
aveva avuto a che fare erano solo tre, sempre gli stessi, e i loro
nomi lui li sapeva benissimo. In infermeria, dove era di casa, tre
persone in tutto e sempre quelle, stessa storia. Chi rimane?
Rimangono i compagni di cella. Vatteli a ricordare i nomi di
cinque compagni di cella cambiati in sei mesi. Per di più Reggina
ormai con la testa non ci stava più tanto. Però i compagni di cella
erano piccoli criminali, certamente né mafiosi né assassini... e
allora commissario? E allora? Eh...? E sì... E certo...
Pilipintòoo!!!!».
..............
«...E così, dottore Mangano, la chiave di tutto stava in quel “trasi
uno e nesci n’autru”. Il Reggina mi voleva dire “Hanno fatto come
nel gioco del Pilipintò: ogni mese un compagno di cella usciva e
ne entrava uno nuovo, e tutti avevano l’incarico di somministrarmi
un po’ di veleno. Mi hanno ammazzato un poco ciascuno”».
Il vicequestore non chiedeva di meglio che credere a Mancuso, ma
sempre sbirro era, e voleva capire bene.
«Ma i compagni di cella di Reggina erano piccoli malfattori
comuni, niente a che fare con la mafia... gente che non aveva mai
fatto veramente male a nessuno... come li convincevano?».
«Dottore, questo me lo ha fatto capire il signor Lucchese, quello
della gioielleria. Anche lui è stato convinto senza difficoltà ad
accompagnare il rapinatore in gioielleria e ad aprirgli la
cassaforte».
«Un sequestro lampo?».
«Cinque. Cinque sequestri lampo, tutti a danno di figli o
comunque di parenti stretti dei compagni di cella di Reggina. I
sequestri avvenivano possibilmente poche ore prima delle visite ai
carcerati, al massimo la sera prima, e duravano il tempo
necessario per costringere la mamma o la moglie del sequestrato a
portare il veleno al congiunto compagno di cella di Reggina e
spiegargli quello che doveva fare. La cosa si risolveva
rapidamente e tenerla segreta, con i mezzi di convincimento a
disposizione dei mandanti, era facilissimo. Poi, a cose fatte, la
famiglia del sequestrato e il recluso coinvolto avevano tutto
l’interesse a tenere la bocca chiusa per non rischiare accuse di
complicità in omicidio, oltre naturalmente alle ritorsioni da parte
dei mandanti».
«E il veleno come passava?».
«Si trattava ogni volta di quantità piccolissime. Potevano essere
nascoste dappertutto: nel refill di una penna, nelle stanghette degli
occhiali...».
«Ma maneggiarlo non era pericoloso anche per i detenuti
complici?».
«Certo. Pericolosissimo. Quella è roba che passa pure attraverso la
pelle, qualche ricercatore che ci lavorava c’è pure morto. Però le
singole dosi non erano in grado di uccidere e comunque i parenti
che consegnavano il veleno durante i colloqui spiegavano anche le
precauzioni da prendere».
«E perché hanno scelto questo veleno? E perché non l’hanno
ucciso subito, con una dose più forte?».
«Belle domande dottore. Qui si gioca di fino. Comincio dalla
seconda. Certo, avrebbero potuto ucciderlo a prima botta con una
dose unica. Però con il sistema delle micro dosi, nessuna di per sé
mortale, era molto più facile convincere a collaborare i familiari
del sequestrato e il detenuto complice: nessuno di loro in realtà
avrebbe ucciso Reggina, avrebbero dato solo, come
dire, “una spinta” ciascuno. Vai a sapere quale era la dose mortale
fra tutte quelle che gli avevano dato... nessuno si sarebbe sentito
un vero assassino. Ma ci sono altri due motivi. Uno è che se
avessero introdotto in carcere una dose letale, il rischio che il
complice ci lasciasse la pelle per un incidente sarebbe stato alto.
Sarebbe stata la fine del piano... ma non solo: a quel punto
Reggina avrebbe probabilmente capito che stavano cercando di
farlo fuori e avrebbe vuotato il sacco per vendetta. Ma se pure
fossero riusciti a somministrare all’ex boss un’unica dose mortale,
l’avvelenamento sarebbe stato evidente e, dal momento che con il
mercurio organico non si muore sul colpo, c’era il grosso rischio
che la vittima facesse in tempo a capire e a parlare.
Ed eccoci al “perché hanno scelto proprio questo veleno”: il
mercurio organico somministrato a piccole dosi avrebbe attaccato
lentamente il cervello senza causare sospetti, tutti avrebbero
pensato ad una accelerazione dei problemi di demenza senile di
cui si vedevano già i primi segni. Geniale. E stava andando
veramente così dottore, solo che Reggina ha intuito proprio alla
fine che cosa gli stavano facendo e ha cercato di comunicarmelo».
Cadde il silenzio. Finalmente il vicequestore Mangano si aprì in
un sorriso e parlò. «Mancuso, ha fatto veramente un bel lavoro.
Mi rimane solo una curiosità piccola piccola. Posso?».
«Dica dottore...».
«Ma alla fine che cos’è questo Pilipintò?».
Mancuso sorrise: «Dipende dottore. Il Pilipintò è un gioco povero,
apparentemente innocente ma con il trucco, un vecchio gioco da
osteria con cui si decidevano le bevute e che ha sicuramente
provocato un bel po’ di coltellate fra alcolizzati... ma è anche la
storia di una prostituta che voleva sposarsi e accumulava la dote
andando con quanti più uomini possibile... ed è pure un povero
trovatello diplomato e pazzo... e oggi è diventato pure la chiave
per risolvere un assassinio. Lei a quale Pilipintò si riferisce?».
«Al gioco, Mancuso, al gioco. Come funziona?».
«Dottore Mangano, metta la mano chiusa a pugno sul tavolo,
come faccio io. Pronto?».
«Pronto».
«Ci giochiamo una birra?».
«Va bene».
Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a
tric e trac nesci unu e trasi n’autru
Pilipintò, Pilipintò, comu l’hai fatta la bella doti, ti l’hai fatta a
tric e trac nesci unu

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Post: Per reperirlo online in Italia come "Pilipintò- Racconti da bagno per Siciliani e non":

 

Cartaceo: http://www.ibs.it/ser/serfat.asp?site=libri&;xy=pilipint%F2

 

Ebook: http://www.ibs.it/ebook/ser/serfat.asp?site=ebook&;xy=pilipint%F2

 

Pe reperirlo all'estero:

 

-EBOOK:

 


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